by redazione | 10 Settembre 2014 10:44
A Kamenge le tre suore uccise avevano contribuito, insieme al prezioso lavoro di padre Claudio Marano del Centro Jeunes, ad avvicinare hutu e tutsi. «Erano, come tanti altri missionari, dei veri caschi blu di Dio — dice ancora padre Albanese — . Sempre pronte a dare tutto con gratuità per il bene della gente affidata loro. Erano la dimostrazione che un missionario non va mai in pensione. Parte per posti remoti, la periferia della periferia, e lì da tutto. Se necessario anche la vita. Nei primi secoli i cristiani morivano per non abiurare la propria fede. Oggi muoiono per non abiurare l’amore dovuto a ogni uomo. Vanno dove nessuno vuole andare. Immersi in situazioni difficilissime, missionari di pace a costo zero».
Uomini e donne che, come spiega Gerolamo Fazzini in Scritte col sangue. Vita e parole di testimoni della fede del X-X e X-XI secolo (San Paolo), sono come una «classe media della santità», «un popolo di miti, misericordiosi, puri di cuore, affamati e assetati di giustizia che ogni giorno, alle più diverse latitudini, mettono in pratica, con opere e parole, nient’altro che le beatitudini. Quelle stesse beatitudini che al catechismo di un tempo venivano chiamate la magna charta del cristiano».
MUOIONO per Cristo, certo, ma nella maggior parte dei casi l’ odium fidei — si è davanti a un martirio cristiano quando si viene uccisi “in odio alla fede” — non c’entra. Più che altro, c’entra il fatto che i Paesi in cui sono in missione vivono nel caos, con conflitti interni cruenti che ne segnano il fallimento. Perché, come afferma in Chiesa globale. La nuova mappa (Editrice Missionaria Italiana) Philip Jenkins, il più noto sociologo delle religioni contemporanee, «negli Stati falliti c’è persecuzione».
Sono i missionari, uomini e donne — 10mila soltanto gli italiani, ma in diminuzione secondo un recente studio della rivista missionaria della Cei Popoli e missione — che lasciano tutto per portare il Vangelo ovunque, spesso fin nelle più sperdute periferie del globo. Religiosi ma anche laici, a volte addirittura intere famiglie, consapevoli che essere mandati «a fare casa comune», come amano dire i padri comboniani, con le popolazioni più povere della terra comporta dei rischi. Tra questi la possibilità di morire. «Chi entra qui dentro senza essere accompagnato da uno di noi — disse qualche mese a fa a Repubblica padre Gustavo Carrara, prete in una delle villas miserias ( baraccopoli) di Buenos Aires — rischia molto. Qui c’è tanta luce. Ma anche, purtroppo, violenza. Per pochi soldi c’è chi è disposto a uccidere ». Come dimostra, pur nell’incertezza della ricostruzione degli eventi, l’eccidio delle suore saveriane in Burundi. «La nostra vocazione — racconta non a caso Silvia Marsili, vicaria generale delle stesse missionarie — può comportare un “donare la vita giorno per giorno”, ma anche “donarla per intero” come hanno fatto le nostre consorelle».
Ma il “giorno per giorno” non è poca cosa. Tanto che, come ricorda un bel dossier di Popoli e missione , le difficoltà attirano sempre meno vocazioni. Un tempo il missionario era un personaggio epico ed eroico, iconograficamente riconoscibile dalla lunga barba bianca, esploratore di mondi esotici. E questa dimensione da Robinson Crusoe attirava, anche se la realtà era sempre ben diversa dal celebre romanzo di Daniel Defoe. Fino ai primi anni del Novecento il missionario partiva per luoghi sperduti e spesso non faceva ritorno. A volte scriveva lettere, ma nulla più. Curava gli ammalati, assisteva gli orfani, i poveri e affrontava pericoli con l’urgenza di salvare chi il Dio cristiano non lo aveva mai sentito nominare. E poche erano le sfumature, pochissimi i dubbi nell’annunciare verità assolute.
Oggi, invece, molto è cambiato. «La missione è anzitutto incontro — dice Filippo Ivardi missionario comboniano in Ciad — La mia spiritualità è il Vangelo, ma per altri è il Corano». E poi, ancora, le periferie: oggi sono raggiungibili da tutti. Conosciute per quel che sono — senza ingenue visioni mitologiche — attirano meno. Tanto che l’Occidente da terra di missionari è oggi terra di missione. Diocesi europee che per secoli hanno “esportato” sacerdoti nel terzo mondo, ora sono costrette dalla drammatica crisi di vocazioni a “importare” preti e suore dall’Africa e dall’Asia. Insomma, è il ribaltamento tante volte descritto da Francesco: il vero centro della cristianità ormai è nelle periferie.
Per tutti questi motivi occorre molta convinzione per partire. Poi però, ancora oggi, chi diviene missionario fa esperienze così forti e coinvolgenti che non desidera più tornare. Tanto che talvolta suona quasi come un affronto la richiesta delle congregazioni di appartenenza di chiudere la propria esistenza nel Paese d’origine.
Ogni anno è Fides a diramare l’elenco degli «operatori pastorali », appunto i missionari, uccisi. Come spiega l’agenzia, «non viene usato di proposito il termine “martiri” per non entrare in merito al giudizio che la Chiesa potrà eventualmente dare su alcuni, e anche per la scarsità di notizie che si riescono a raccogliere sulla loro vita e sulle circostanze della morte». E, tra l’altro, «la maggior parte dei missionari uccisi ha perso la vita in seguito a tentativi di rapina o furto, aggrediti in qualche caso con efferatezza e ferocia, segno del clima di degrado morale, di povertà economica e culturale, che genera violenza e disprezzo della vita umana. Tutti vivevano in questi contesti umani e sociali».
Dalle informazioni raccolte, nell’anno 2013 sono stati uccisi nel mondo 23 operatori pastorali, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Secondo la ripartizione continentale, in America sono stati uccisi 15 sacerdoti (7 in Colombia; 4 in Messico; 1 in Brasile; 1 in Venezuela; 1 a Panama; 1 ad Haiti); tre in Africa e tre in Asia, due in Europa. I delitti hanno dinamiche diverse seppure, nella maggior parte dei casi, spiega il direttore di Popoli e missione padre Giulio Albanese, si ha a che fare con fatti di «cronaca nera».
Emblematico quanto accaduto a don José Francisco Vélez Echeverri, 55 anni, sacerdote diocesano, trovato morto il 16 gennaio 2013, con ferite di arma da taglio, nel cortile della sua casa nel quartiere El Albergue, a sud di Buga, in Colombia. I vicini di casa hanno visto una persona allontanarsi in bicicletta dall’abitazione qualche ora prima del ritrovamento del corpo senza vita. Per le autorità si è trattato con ogni probabilità di un furto finito in tragedia. Don José era impegnato nel sociale e non aveva nessun nemico: semplicemente uno dei tanti religiosi che, come disse Francesco nell’Angelus del 20 ottobre 2013, «lavorano tanto senza far rumore, e danno la vita».
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