by redazione | 12 Settembre 2014 13:24
Tanto nei governi nazionali quanto nelle istituzioni europee si moltiplicano le voci critiche o per lo meno i dubbi nei confronti delle politiche di austerità. Se diversi economisti sottolineano da anni quanto tali politiche siano sbagliate specialmente in una fase recessiva, il dibattito ha subito un’accelerazione ad inizio 2013, con lo «stupefacente mea culpa da parte del capo economista del Fondo Monetario Internazionale», come aveva al tempo titolato il Washington Post.
Riassumendo, nello studio Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers, Olivier Blanchard assieme a Daniel Leigh analizza l’impatto dei piani di austerità proposti, o meglio imposti, a mezza Europa. Pur tenendo conto di differenze legate alla situazione dei singoli Paesi, le conclusioni sono piuttosto nette: nella gran parte dei casi, l’austerità è un danno per l’economia e l’occupazione.
Peggio ancora, non funziona nemmeno per rimettere a posto i conti pubblici, ovvero per diminuire il famigerato rapporto tra debito pubblico e PIL, vero e proprio faro che guida le scelte politiche di tutti i Paesi occidentali.
Dimentichiamoci per un momento che la crisi è stata causata da una gigantesca finanza privata fuori controllo, e non certo dalla finanza pubblica. Ammettiamo che siano adesso gli Stati a dovere rimettere a posto i conti pubblici, e non delle banche private sommerse di titoli tossici e che continuano a lavorare con leve finanziarie degne di avventurieri da casinò. Supponiamo anche che lo stato di salute di un Paese vada valutato in base al rapporto tra debito pubblico e Pil e non al benessere dei cittadini o al tasso di disoccupazione, tanto per fare un paio di esempi.
Anche partendo da queste ipotesi, in realtà ampiamente criticabili se non completamente false, il pensiero mainstream assicurava che la strada maestra per «mettere a posto» i conti e ridurre il rapporto debito/Pil era una sola: piani di austerità, tagli alla spesa pubblica, smantellamento del welfare. Analizziamo questo rapporto. Se si taglia la spesa pubblica, a parità di entrate diminuisce il deficit e quindi tende a migliorare — o per lo meno a peggiorare di meno — il debito pubblico.
C’è però una difficoltà: tagliare la spesa pubblica vuole dire meno investimenti, meno denaro per i dipendenti pubblici, meno servizi e via discorrendo, ovvero una diminuzione del Pil. Nel rapporto debito/Pil, quindi, da un lato quindi i piani di austerità fanno calare il numeratore, dall’altro però cala anche il denominatore.
Non c’è problema, sosteneva il Fmi. Abbiamo fatto i conti, e il debito diminuisce più rapidamente del Pil. Nel complesso, quindi, il rapporto debito/PIL migliora. Certo, la ricchezza diminuisce, tagli al welfare significano meno risorse proprio per le classi più deboli, aumenterà la disoccupazione, nel breve si rischia di acuire una recessione già in atto, crescono le diseguaglianze.
Sono però tutti prezzi da pagare. Nel suo insieme, lo stato di salute del Paese migliorerà.
E invece no. Lo studio del 2013 segnala che tagliando la spesa pubblica il PIL diminuisce più rapidamente di quanto non diminuisca il debito. Il rapporto continua a peggiorare. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico.
Anche senza grandi analisi teoriche, sarebbe probabilmente stato sufficiente vedere cosa sta succedendo in tutti i Paesi che in questi anni hanno dovuto accettare le misure di austerità. Dall’Italia alla Spagna fino alla martoriata Grecia, non solo la disoccupazione è rapidamente aumentata, non solo si sono raggiunti livelli di povertà e di disuguaglianze intollerabili, ma persino il principale obiettivo da raggiungere, ovvero l’aggiustamento dei conti pubblici, si sta risolvendo in un fallimento, e il rapporto tra debito e Pil continua a peggiorare.
Alla luce sia delle recenti teorie sia della situazione europea, sarebbe il caso di ridiscutere alla base le ricette di politica economica. Non solo riguardo l’austerità. Lo stesso Fmi negli ultimi tempi è arrivato a rimettere in discussione persino la libertà di movimento dei capitali, iniziando a riconoscere come alcuni controlli sui flussi finanziari in entrata e in uscita dai Paesi siano opportuni, se non necessari.
Pur se con notevoli limiti ed eccezioni, è probabilmente un passo ancora più clamoroso di quello riguardante il fallimento dell’austerità.
Segnali che il pendolo sta forse iniziando a tornare indietro, dopo la lunga fase di egemonia liberista. Analisi teoriche ed evidenza empirica che non sembrano però ancora portare a un’inversione di rotta nelle politiche di un’Europa a dire poco in enormi difficoltà. Ripensare le scelte economiche, monetarie e finanziarie significa fare emergere le voci critiche e discordanti, creare consenso e ribaltare l’immaginario costruito in questi anni. La variabile fondamentale è il tempo a disposizione per trasformare i mea culpa in decisioni politiche ed effettuare una virata non più rimandabile.
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