by redazione | 24 Settembre 2014 11:01
MANTOVA. IL primo “mostro” fu un pomodoro. Rosso, lucido, sodo e con una caratteristica importante: non diventava troppo maturo. Fu il primo Ogm (organismo geneticamente modificato) di cui si parlò in Italia, anche se l’ortaggio in questione — era stato «costruito» in California — non arrivò mai nel nostro Paese. L’allarme — correva l’anno 1994 — fu però alto: «Scienziati più o meno pazzi stanno manipolando la natura, che succederà alle nostre colture invase da colture aliene…». «No Ogm», «Ogm free» in questi vent’anni sono diventati vessilli di mille battaglie. «Otto italiani su dieci — sostiene la Coldiretti, la più grande associazione di coltivatori — non vogliono gli Ogm e bene ha fatto il governo a vietarli su tutto il territorio nazionale».
Gli organismi geneticamente modificati (chi li sostiene preferisce chiamarli “geneticamente migliorati”) non sono arrivati nei campi degli agricoltori ma hanno riempito i nostri piatti. «Basta entrare — dice Dario Bressanini, docente di chimica all’università Insubria — in un supermercato. Andate ai banchi dei formaggi e della carne. Non sta scritto su nessuna etichetta ma è certo che buona parte di formaggi, latte, burro, yogurt, carne, salumi, polli e uova sono prodotti da animali alimentati con mangimi contenenti Ogm». Non serve Sherlock Holmes per svelare il mistero. L’Italia produce solo il 10 per cento della soia necessaria agli animali da stalla, da porcilaia o da pollaio. Il restante 90% arriva dall’estero e l’84% della soia coltivata oltre confine è Ogm. «L’industria mangimistica — racconta Dario Bressanini, che è anche scrittore (“Ogm fra leggenda e realtà”) — utilizza ogni anno 4 milioni di tonnellate di farina di soia. Di questi 4 milioni l’84% è Ogm e arriva da Brasile, Stati Uniti, Paraguay e Argentina. Facendo due conti, si scopre che importiamo 3.350.000 tonnellate di soia transgenica all’anno, circa 55 chili a testa per ogni italiano».
La rivolta contro i “No Ogm” sempre e comunque è iniziata a Mantova nel febbraio scorso, quando 600 coltivatori aderenti alla Confagricoltura provinciale hanno chiesto, con una petizione, di poter coltivare il mais Mon180 — venduto dalla multinazionale Monsanto — visto che questo granturco viene comprato oltre frontiera e dato in pasto ai nostri animali. Nei giorni scorsi, sempre a Mantova, il fronte si è allargato. Il convegno «L’intelligenza italiana rilancia la ricerca Ogm» è stato infatti organizzato dalla Confagri di Lombardia e Veneto e ha partecipato anche il presidente nazionale Mario Guidi. Netta la spaccatura con le altre associazioni, Cia e Coldiretti. «Noi studiosi — ha detto la senatrice a vita e scienziata Elena Cattaneo — abbiamo il dovere di consegnare qualcosa di buono agli altri. Continuare a osteggiare la ricerca non è forse come badare a quel 2% di italiani che veste in cachemire senza pensare a quel 98% che non ha neppure la lana?».
Si pensa ai prodotti di eccellenza, riservati a pochi, e non a chi con fatica deve comprare il suo cibo al supermercato. «Ma anche i prodotti di eccellenza — dice Matteo Lasagna, presidente Confagri a Mantova e in Lombardia — non sono liberi dagli Ogm. Mais e soia alimentano i maiali che poi forniranno i prosciutti Dop». «In Italia — racconta il ricercatore Dario Bressanini — si è fatta e continua ancora una battaglia contro un coltivatore del Friuli che ha piantato mais Ogm in un campo di 6.000 metri quadrati. Rischio di contaminazione, si annuncia. Ma non si dice però che soia e mais modificati sono entrati da anni nello stomaco degli animali che ci danno il prosciutto di Parma, il parmigiano Reggiano, il Grana Padano. E questi Ogm non sono certo clandestini. Basta entrare in un Consorzio agrario, magari gestito da una delle associazioni che si oppongono agli Ogm, per trovare le etichette dei sacchi di mangime che annunciano: “farine di soia e farine di granturco prodotte da semi geneticamente modificati”».
Etichette che però spariscono davanti al consumatore. «Le leggi europee e italiane lo permettono. Meglio continuare con l’ipocrisia ». «Se ci fossero le etichette che raccontano la verità — dice Roberto Defez, primo ricercatore del Cnr a Napoli — tanti capirebbero che questi Ogm non sono dei mostri. Invece gli allarmi, soprattutto via internet, si ripetono. In Italia importiamo una trentina di Ogm ma i più importanti sono la soia, il mais e il cotone. A proposito di quest’ultimo, si racconta che provochi pesantissime allergie. E invece da anni si usa nelle banconote che tocchiamo tutti i giorni e in ambito chirurgico». Secondo la Confagri, con il mais tradizionale si perdono 400 euro per ettaro e si spendono 45 milioni di euro all’anno per pagare 100.000 litri di insetticidi.
«Fino a otto anni fa — racconta Roberto Defez — la produzione di mais era sufficiente per il consumo nazionale. Ora ne produciamo solo il 65% e il resto arriva da fuori, compreso quello Ogm. Le rese sono crollate anche a causa delle infezioni. Nel 2012, quando le nostre pannocchie sono state semidistrutte dalle fumonisine, un mais transgenico avrebbe ridotto il danno da 100 a 10. In questo 2014 sono scaduti i brevetti della soia, l’anno prossimo cadrà quello del mais. Sarebbe l’occasione giusta per discutere. Quando il confronto avviene sui fatti e non sulle leggende, cadono le ostilità».
Nelle risaie del Pavese sta iniziando il nuovo raccolto. Poche invece le stalle che resistono. «A Landriano, il mio paese, ce n’erano dieci — dice Wilma Pirola, presidente della Coldiretti di Pavia — e ora ci sono solo la mia — 150 vacche frisone in lattazione — e quella dell’Università di Milano. Gli Ogm? Siamo costretti a usarli». Alle vacche viene servito un unifeed, un piatto unico. «Insilato di mais, farina di soia, mangime a pellet arricchito di vitamine e sali minerali e fieno. È vero, i cartellini che raccontano la presenza di Ogm dovrebbero essere messi anche sui prodotti finiti». D’accordo il direttore della Coldiretti del Pavese Giovanni Roncalli. «Sì, l’etichettatura sarebbe utile, per motivi di trasparenza. I nostri consorzi agrari stanno lavorando per costruire filiere di produzione libere da questi organismi modificati. Accettare la coltivazione di Ogm in Italia non è nei nostri programmi. La Confagri vuole puntare sui grandi numeri. Ma a che serve se il prezzo non pagherà il tuo lavoro? Dobbiamo puntare sulla qualità ».
In una lettera, più di 30 ricercatori pubblici italiani si dichiarano «d’accordo con la senatrice Elena Cattaneo che ha sottolineato che le coltivazioni Ogm non sono più rischiose di quelle non Ogm o biologiche ». «Troviamo imbarazzante — scrivono i ricercatori — che il Paese che con Galileo Galilei ha inventato il metodo scientifico moderno, ponga limitazioni così forti alla libertà di ricerca». Vent’anni dopo il pomodoro che doveva resistere per giorni e giorni — come una mela — la battaglia è ancora all’inizio.
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