Karl Popper se il falso è la sola verità

by redazione | 15 Settembre 2014 10:57

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FORTE di una esperienza ripetuta per mesi un tacchino può formulare la legge secondo cui ogni volta che arriva il contadino riceverà del mangime. Ma c’è un giorno, subito prima di Natale, in cui la legge è drammaticamente smentita. Per molti filosofi il destino del tacchino è sconsolante anche dal punto di vista scientifico. Se le nostre conoscenze sono la generalizzazione di esperienze, ogni nostro sapere è chimerico: verrà sempre il giorno in cui la legge che credevamo incrollabile si rivelerà illusoria, e che le cose stiano così lo dimostra non solo la morte del tacchino, ma anche la storia delle scienze, che è un susseguirsi di errori, più che di verità.
Si è dovuta attendere la riflessione di Karl Raimund Popper (morto il 17 settembre di vent’anni fa) per una valutazione diversa del ruolo dell’errore nella scienza. Il fatto che ogni legge empirica possa venir smentita dall’esperienza (“falsificata”, nel gergo di Popper) non è il segno che la scienza è vana, ma, al contrario, che si tratta di una impresa promettente. Nessuno si sognerebbe di confutare la tesi secondo cui ogni volta che cade il silenzio in una conversazione è perché passa un angelo, ma dire “ogni volta che arriva il contadino, porta il mangime” significa formare una legge potenzialmente scientifica.
Ora, secondo Popper, quello scienziato potenziale che era il tacchino aveva sbagliato due volte. La prima, quando pensò (come gli empiristi) che la semplice esperienza sia sufficiente a formare una teoria. E non è così: nella Critica della ragion pura Kant loda Bacone proprio per aver compreso che lo scienziato deve interrogare la natura come un giudice, e non come uno scolaro. La scienza non è una raccolta di esperienze messe, per così dire, in bella copia; è piuttosto un processo che parte da un problema, cerca di risolverlo, e per farlo formula delle congetture che si tratterà di mettere alla prova attraverso esperimenti ad hoc .
Ma il secondo errore del tacchino era ancora più fatale, visto che aveva pensato che una serie molto lunga di regolarità nell’esperienza possa verificare una teoria. Non è così. Visto che l’esperienza è costitutivamente aperta, la regolarità può corroborare una teoria, ma non verificarla: si possono aprire quante bottiglie si vuole, resterà aperta l’eventualità che una sappia di tappo, ed è da questa ovvia considerazione che nasce l’uso di fare assaggiare il vino al ristorante prima di servirlo. L’unica certezza che l’esperienza può dare a una teoria è negativa, ossia può dimostrare che è, sicuramente, falsa. Di qui la superiorità della falsificazione sulla verificazione: se Spinoza aveva detto che il vero è indice di se stesso e del falso, Popper sostiene piuttosto che il falso è indice di sé e del vero.
Tutto a posto? Non esattamente, perché anche la teoria di Popper non è priva di problemi. Intanto, che cosa significa che le osservazioni sono “guidate da una teoria”? Si vuol dire che due teorie completamente diverse vedrebbero fatti completamente diversi con il risultato che gli scienziati si trovano su mondi completamente diversi? Ovviamente Popper non intendeva dire né che l’esperienza scomparisse totalmente sotto il peso della teoria, né soprattutto che ci fossero elementi teorici in ogni esperienza, anche infima. Ma dal dire che l’osservazione è “theoryladen”, che i fatti sono “carichi di teoria”, a concludere, con il Derrida della Grammatologia , che “nulla esiste fuori del testo”, ossia che ogni nostra esperienza, anche la più primaria, è condizionata dalla storia e dal linguaggio, il passo è breve. C’è un secondo problema nella teoria di Popper. Siamo disposti a considerare “vera” una teoria solo nella misura in cui potrebbe rivelarsi falsa? Nessuno di noi, andando dal medico, sarebbe disposto ad ammettere che la sua competenza è garantita proprio dal fatto che le sue affermazioni potrebbero essere false. Sebbene poi, quando la diagnosi è infausta o almeno spiacevole, diventiamo naturalmente popperiani. Anche nel peso dato all’errore Popper si rivela erede di Bacone, che, vivendo agli albori della scienza moderna, era incline, e a ragione, a considerare che buona parte del nostro sapere è fatto di pregiudizi ed errori. Ma oggi non è più così, ed è per questo (come ha recentemente argomentato uno dei maggiori epistemologi contemporanei, Evandro Agazzinel suo monumentale Scientific Objectivity and Its Contexts uscito quest’anno da Springer) che il falsificazionismo si rivela una dottrina sottilmente antiscientifica.
Il problema è serio. Pretendere che non ci siano induzioni legittime a meno che non si sia esaminata la totalità dei casi, o almeno si sia dimostrato che il contrario è falso, ci porterebbe alla paralisi. Criticando Bacone all’inizio dell’Ottocento Joseph de Maistre aveva buon gioco a sostenere che si trattava di una esagerazione, di una iperbole che non porta a nulla di buono. De Maistre lo faceva per riabilitare i pregiudizi contro l’illuminismo, per difendere il buon senso contro gli eccessi della ragione. Ma proprio questa circostanza ci aiuta a capire il valore, per così dire, politico, e il pathos filosofico del falsificazionismo: tutto, anche l’opinione più venerabile e consolidata, potrebbe crollare di colpo, il negativo ha sempre un vantaggio sul positivo.
È la lezione non solo di Popper, ma anche di Adorno, così come di Derrida, un autore che apparentemente si pone agli antipodi del suo stile di pensiero. Il parallelo non mi viene solo sul filo di un ricordo autobiografico — ricordo di aver visto i due a Palermo, nel 1988, premiati nella stessa cerimonia, che si guardavano con sospetto reciproco — ma in base a un assunto metafisico che li accomunava: la verità si dà molto più nella smentita che nella conferma. Nella contraddizione, nella falsificazione, nell’aporia. Difficile, ad esempio, trovare qualcosa di più popperiano della domanda che Derrida si era posto in una conferenza del 1992: “La mia morte è possibile?”. Domanda assurda e insieme perfettamente logica, giacché tutte le morti avvenute sinora non ci autorizzano a formulare la legge “ogni uomo è mortale”. (È anche vero, però, che anche se un uomo vivesse un milione di anni non potrebbe formulare la legge “un uomo è immortale”: nulla esclude infatti che, dietro l’angolo, lo aspetti la fine del tacchino.)

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