Jobs act anche per decreto
Il Jobs act per decreto. Compresa la modifica dell’articolo 18, simbolo di «un sistema iniquo» e dunque «non di sinistra», di un «sistema del diritto del lavoro che va radicalmente cambiato». Per ora è solo una minaccia che Matteo Renzi agita alla Camera – non ribadendola invece al Senato, dove parla qualche ora più tardi – ma certifica come il presidente del Consiglio voglia portare a casa “in tempi brevissimi” la nuova riforma del lavoro. Dubbi di costituzionalità a parte — tramutare un disegno di legge delega in un decreto sarebbe una forzatura difficilmente accettabile da Napolitano — il premier mette la pistola sul tavolo parlamentare.
Alla vigilia della riunione della commissione Lavoro del Senato che dovrà discutere l’articolo 4 della legge delega – quella che riguarda il contratto a tutele crescenti e, nel volere della destra della maggioranza anche la riscrittura in maniera restrittiva dello Statuto dei lavoratori – il premier dedica la parte più sentita del suo discorso alle Camere sul programma dei mille giorni al capitolo lavoro. L’emergenza disoccupazione per lui va affrontata subito e vede come fumo negli occhi le divisioni all’interno della sua maggioranza che potrebbero portare ad un rallentamento dei tempi di approvazione della delega. La faccia del ministro Giuliano Poletti nel momento in cui Renzi ha proferito la parola «decreto» era tutto un programma: la sorpresa lascia nel giro di qualche secondo spazio ad un annuire di capo poco convinto. Difficile pensare che fosse al corrente, anche perché solo qualche ora prima — e ieri sera in un incontro informale — aveva lavorato ad un emendamento di compromesso — senza riferimenti all’articolo 18 — per l’approvazione al Senato e – soprattutto – alla Camera, per poi non dover tornare a palazzo Madama, allungandone i tempi, fissati «entro fine anno», con 6 mesi per i decreti delegati, di competenza governativa.
Le parole del premier hanno di fatto ringalluzzito i sostenitori dell’addio all’articolo 18, già reso monco dalla riforma Fornero (“Non credo che da una nuova riforma dell’articolo 18 possa arrivare una variazione per l’occupazione ma sull’articolo 18 è in corso una nuova partita ideologica: c’è chi vuole vincere una partita al di là di quello che serve al Paese”, ha detto ieri l’ex ministro) di due soli anni fa. Lo stesso Maurizio Sacconi (Ncd), relatore del provvediemento e presidente della commissione Lavoro al Senato, è passato dalle dichiarazioni concilianti di lunedì — «Un compromesso è a portata di mano» — ad applaudire le parole del premier — «Ha posizione più avanzata del Pd» — e a chiedergli il coraggio di «andare avanti sul decreto». Sulla stessa posizione Piero Ichino – autore dell’emendamento per sostituire il reintegro con un’indennità nel contratto a tutele crescenti – e tutta Scelta Civica.
Le reazioni sul fronte sinistro però non si fanno attendere. Il più duro è Maurizio Landini che nel giro di due battute fa crollare la presunta asse col premier: «Sarebbe uno strappo inaccettabile se si intervenisse con un decreto o se si cancellasse l’articolo 18: il problema è estenderlo a quelli che non ce l’hanno». Il segretario Fiom va oltre, chiedendo che il Direttivo Cgil di oggi discuta di «sciopero generale». Contro Renzi anche il “renziano” Angeletti, Bonanni e tutta Sel. Silente il M5s.
Nel Pd le acque sono agitate: Area riformista ha subordinato la collaborazione nella nuova segreteria ad una discussione ad hoc sulla riforma del lavoro, con Renzi disponibilie a concederla a fine settembre. L’ala sinistra intanto si schiera a difesa dell’articolo 18, persuasa ancora di spuntarla. Cesare Damiano, colui che come presidente della commissione Lavoro della Camera — a maggioranza sinistra Pd — potrebbe allungare i tempi della delega, è convinto che quella del decreto evocato da Renzi sia «una pressione normale in questi casi: alla fine io credo che il decreto non ci sarà». Allo stesso modo lui – nonostante la pressante richiesta – non sarà stamattina al Senato quando i senatori Pd discuteranno il testo dell’emendamento alla delega. L’ipotesi era quella di un’indicazione generica a rimodulare parti dello Statuto. Poi è arrivato il ricatto di Renzi. Le conseguenze si capiranno da oggi in poi.
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