by redazione | 15 Settembre 2014 10:29
ROMA — Il governo preme. E vuole che l’accelerazione d’autunno arrivi proprio sulla riforma del lavoro, sulle regole per i licenziamenti e il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che li regola per le aziende più grandi. Un segnale rivolto alla politica di casa nostra e soprattutto a Bruxelles, come esempio di riforma fatta e non solo annunciata, come carta da giocare per ottenere qualche margine di flessibilità sugli obiettivi di bilancio. Quella che inizia oggi può essere la settimana decisiva ma tutto si giocherà sui dettagli. Al momento nel Jobs act , il disegno di legge delega arrivato nella commissione Lavoro del Senato, sull’articolo 18 e sullo Statuto dei lavoratori non c’è neanche una riga. Certo, la legge delega ha la funzione di cornice, un elenco dei principi che saranno poi dettagliati in un secondo momento con i decreti delegati. Ma senza nemmeno un appiglio sulla materia poi non sarebbe possibile procedere.
Per questo il governo e il relatore, il presidente della commissione ed ex ministro Maurizio Sacconi (Ncd), dovrebbero presentare un emendamento che introduca nel testo la questione. Probabilmente si userà una formula sfumata, il testo parlerà solo di riforma dello Statuto dei lavoratori da adottare con un testo unico ispirato dal diritto comunitario. Ma la modifica dovrebbe finire qui, senza entrare nel merito della questione. Una sorta di cavallo di Troia per aprire la strada alle tappe successive, con l’obiettivo finale che resta fermo: in caso di vittoria in una causa per licenziamento, sostituire il reintegro con un indennizzo che cresce a seconda dell’anzianità aziendale. Un gioco sotterraneo, ma neanche troppo.
Ieri ha parlato Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, dove il Jobs act arriverà dopo il via libera di Palazzo Madama, e nome importante di quella sinistra pd contraria ad un intervento del genere: «L’articolo 18 — ha detto Damiano, intervistato dal Mattino — è stato innovato due anni fa all’epoca del governo Monti. Perché cambiarlo ancora? Rischiamo di acuire le tensioni sociali». Parole alle quali ha risposto lo stesso Sacconi: «Damiano sconfessa Renzi. Di riforma complessiva dello Statuto dei lavoratori ha parlato lo stesso premier e segretario del Pd. Ed è paradossale che a non volerla siano taluni esponenti dello stesso partito». Un tentativo di spaccare quello che, al di là delle larghe intese, sta pur sempre nell’altra metà del vecchio arco parlamentare. Ma anche l’emersione di quella partita sotterranea, che si giocherà sul filo delle parole e anche delle ambiguità.
È il caso di un altro passaggio della legge delega, un altro principio che solo in un secondo momento sarà tradotto in un provvedimento concreto e dettagliato: le famose «tutele crescenti». In questa formula rientrerebbe sia l’ipotesi che, in caso di licenziamento, ci sia un indennizzo crescente con l’anzianità, e quindi il superamento di fatto dell’articolo 18. Sia l’ipotesi che il licenziamento sia consentito solo nei primi tre anni, salvo poi applicare le regole attuali per il resto della vita lavorativa. Due visioni diverse, la prima sostenuta da chi vuole «cancellare» l’articolo 18, la seconda da chi lo difende. Che però troverebbero entrambe una giustificazione in quella formula usata nelle delega.
Il Jobs act è nel calendario della commissione Lavoro del Senato per martedì. Ma è probabile che le votazioni entrino nel vivo il giorno successivo. Sempre mercoledì riparte al Senato, in commissione Affari costituzionali, la discussione sul disegno di legge delega per la pubblica amministrazione, la seconda puntata della riforma partita prima dell’estate con il decreto legge che ha tagliato i distacchi sindacali e rafforzato la mobilità obbligatoria dei dipendenti. Qui, però, i ritmi saranno meno serrati: si riprende con un’indagine conoscitiva. La conferma che i segnali da mandare a Bruxelles si cercheranno su altre materie.
Lorenzo Salvia
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