Jeremy Rifkin nel regno fatato della buona vita

by redazione | 6 Settembre 2014 18:47

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In una ipo­te­tica gal­le­ria degli impren­di­tori che hanno svi­lup­pato una qual­che forma di inno­va­zione, un posto ina­spet­tato, e cer­ta­mente non pre­vi­sto dall’economista Joseph Shum­pe­ter che pure alla figura dell’imprenditore ha asse­gnato un ruolo cen­trale nell’analisi del capi­ta­li­smo, va di diritto a Jeremy Rifkin. Lo stu­dioso sta­tu­ni­tense non opera nel set­tore auto­mo­bi­li­stico, né in quello ener­ge­tico; e nep­pure nell’high-tech, nella chi­mica, nel tes­sile e nella logi­stica. È un ibrido tra un con­su­lente e uno stu­dioso, che è riu­scito, nella sua ora­mai tren­ten­nale atti­vità, a svi­lup­pare una pic­cola, agile e red­di­ti­zia impresa cul­tu­rale.

Rifkin, infatti, è un impren­di­tore di se stesso. Scrive libri, tiene con­fe­renze e svolge con­su­lenze per imprese e isti­tu­zioni pub­bli­che attorno ai trend sociali e eco­no­mici che carat­te­riz­zano le società capi­ta­li­ste. Ha annun­ciato la «fine del lavoro», irre­ver­si­bili cam­bia­menti cli­ma­tici, la crisi ener­ge­tica con il con­se­guente svi­luppo dell’energia all’idrogeno, il solare, il foto­vol­taico e le bio­masse, pro­spet­tando, ogni volta, tra­sfor­ma­zioni che non sono pen­sa­bili se si rimane vin­co­lati ai para­digmi domi­nanti. Ad ogni libro ha invi­tato il potere costi­tuito a pren­dere atto che il mondo così come era stato «for­mato» era sul ciglio di una rivo­lu­zione che avrebbe cam­biato stili di vita, atti­vità eco­no­mi­che, sistemi poli­tici. Poco impor­tava se le sue pre­vi­sioni e i tren­d­che met­teva al cen­tro della sua atti­vità non sem­pre, anzi quasi sem­pre non ave­vano lo svi­luppo pro­spet­tato. Alle cri­ti­che che accom­pa­gnano le sue ana­lisi, Rifkin risponde che l’errore riguar­dava il tempo sta­bi­lito affin­ché si rea­liz­zasse la «rivo­lu­zione» annun­ciata o che non aveva pre­vi­sto fat­tori inter­ve­nuti suc­ces­si­va­mente, che non infi­cia­vano le sue pre­vi­sioni, per­ché quei fat­tori avreb­bero reso più radi­cali le tra­sfor­ma­zioni ipotizzate.

L’INTERNET DELLE COSE

La figura di impren­di­tore che «incarna» più che con­se­gnare la pro­du­zione teo­rica legata a un con­tin­genza senza Sto­ria alla cri­tica rodi­trice dei topi, con­ti­nua ad acqui­sire visi­bi­lità, con­sen­tendo a Rifkin di essere il gestore di una impresa della cono­scenza che fa buoni pro­fitti. I motivi del suo suc­cesso sono da ricer­care nella indub­bia capa­cità di «annu­sare» l’aria che tira e di offrire pro­dotti che, gra­zie a uno spe­ri­co­lato movi­mento dia­let­tico, ripro­du­cono e con­tri­bui­scono, allo stesso tempo, a pla­smare lo «spi­rito del tempo». Di que­sta capa­cità è testi­mone il suo ultimo libro La società a costo mar­gi­nale zero (Mon­da­dori, pp. 485, euro 22) , che sarà pre­sen­tato oggi al Festi­va­let­te­ra­tura di Man­tova (appun­ta­mento alle 14.30 a Piazza Castello).
Il volume può essere con­si­de­rato come un trat­tato rias­sun­tivo della sua vita teo­rica. C’è appunto la fine del lavoro, il ruolo svolto dalle ener­gie rin­no­va­bili nel ridi­se­gnare gli sce­nari sociali e urba­ni­stici, la società dell’accesso come rein­ven­zione più che fine della pro­prietà pri­vata a par­tire dai com­mons fisici e «imma­te­riali», l’economia della col­la­bo­ra­zione. Un insieme che porta Rifkin ad affer­mare che i costi per pro­durre un bene stanno arri­vando vicini allo zero. Quella del pros­simo futuro sarà una società domi­nata dall’«Internet delle cose». Come nel web la pro­du­zione di con­te­nuti e di soft­ware ormai sono da con­si­de­rare irri­sori, dato che vedono all’opera la figura del pro­su­mer, cioè del con­su­ma­tore che è anche pro­dut­tore di con­te­nuti visto che è «con­nesso» sem­pre alla Rete, anche al di fuori dalla schermo la pro­du­zione di ener­gie e di beni tan­gi­bili hanno visto una dra­stica e radi­cale ridu­zione gra­zie all’uso di tec­no­lo­gie che eli­mi­nano gran parte del lavoro umano o per­ché con­sen­tono pro­cessi di autoproduzione.

IL MOVI­MENTO DEI MAKERS

 

rifkin

Sul primo aspetto, Rifkin si limita a con­sta­tare che la tec­no­lo­gia infor­ma­tica non solo sta ridu­cendo su scala pla­ne­ta­ria il lavoro ope­raio e che tale ridu­zione ha comin­ciato a coin­vol­gere anche il «lavoro della cono­scenza», della cura, della logi­stica e dei ser­vizi a causa di soft­ware deri­vanti dall’Intelligenza arti­fi­ciale. La seconda ten­denza, invece, si basa sulla pos­si­bi­lità di pro­durre ener­gia da soli (foto­vol­taico, solare e bio masse) gra­zie al miglio­ra­mento dei com­po­nenti (pan­nelli, bat­te­rie per l’accumulo, mate­riali per la distri­bu­zione dell’energia che ridu­cono la disper­sione ener­ge­tica) e sulle ormai famose stam­panti 3d, che hanno fatto ridere non pochi com­men­ta­tori ita­liani, quando sono stati evo­cate mara­mal­de­sca­mente da Beppe Grillo.
Ma al di là delle ester­na­zioni del guitto del popu­li­smo post­mo­derno in salsa ita­lica, il «movi­mento dei makers» è una realtà che non può essere liqui­data con una scrol­lata di spalle, per­ché rap­pre­senta la dif­fu­sione virale di quell’attitudine altera e con­flit­tuale verso i prin­cipi della pro­prietà intel­let­tuale. E se per i con­te­nuti «imma­te­riali» que­sto signi­fica rifiuto del copy­right e dei bre­vetti, per i makers pro­durre in pro­prio coin­cide con una cri­tica alla società delle merci che sarebbe sciocco rele­gare a fol­klore. Al di là della futu­ri­stica idea che sarà pos­si­bile svi­lup­pare un dispo­si­tivo che, come accade nella serie di Star trek, pro­duca dalla mate­ria inerte tutto ciò che serve a vivere, tra i makers è forte la ten­sione ad auto­ge­stire la pro­du­zione e a pro­spet­tare solu­zioni all’assenza di lavoro, come testi­mo­niano alcune pic­cole imprese e il più dif­fuso movi­mento di recu­pero delle fab­bri­che dismesse.
L’aspetto poco con­vin­cente del libro di Rifkin non sta nell’elevare i pro­to­tipi (le sedie, le mura), costruiti con stam­panti 3d o le espe­rienze di auto­ge­stione ener­ge­tica su base locale, a ele­menti sem­pli­fi­ca­tivi di una sor­gente società post­ca­pi­ta­li­sta, dove l’economia di mer­cato è ridotto a un resi­duo del pas­sato, men­tre fio­ri­sce l’economia della col­la­bo­ra­zione. Rifkin la fa, cioè, troppo sem­plice, dato che pro­spetta un’evoluzione paci­fica che vedrà l’insieme delle norme che rego­lano la pro­du­zione della ric­chezza dis­sol­versi come neve al sole.
Dire che la pro­prietà pri­vata è un retag­gio del pas­sato, così come soste­nere che il lavoro sala­riato può essere supe­rato met­ten­dosi in pro­prio sono desi­deri scam­biati con la realtà. La realtà attuale, tra poli­ti­che di auste­rità, dif­fu­sione a mac­chia d’olio della disoc­cu­pa­zione, guerre feroci com­bat­tute per acqui­sire il con­trollo delle fonti petro­li­fere o di mate­rie prime indi­spen­sa­bili per l’industria hightech, parla un altro lin­guag­gio di quello tran­quil­liz­zante di Jeremy Rifkin. Un limite, quello di Rif­kin, dovuto non solo al fatto che i suoi sono cat­tivi desi­deri, ma per­ché nel volume è rimosso il nodo degli assetti di potere e dei rap­porti di forza che con­ti­nuano ad asse­gnare alla pro­prietà pri­vata e al lavoro sala­riato un potere per­for­ma­tivo della realtà stessa. In altri ter­mini, a Rifkin sfugge la dimen­sione del Poli­tico: non arte della media­zione, come recita la vul­gata domi­nante, ma un agire teso alla tra­sfor­ma­zione, appunto, dei rap­porti di forza.

UNA RADI­CALE DEREGULATION

Discorso dif­fi­cile, certo, ma fin troppo evi­dente quando nel volume sono affron­tati il tema dei com­mons e della pro­prietà intel­let­tuale. Sul secondo aspetto, Rifkin ha un punto di forza dalla sua. Auspi­care la for­ma­zione di un sistema misto dove il regime della pro­prietà intel­let­tuale con­vive con la dif­fu­sione delle licenze crea­tive com­mons non è molto distante da quanto sostiene l’organismo dell’Onu sulla «World Intel­lec­tual Pro­perty». Rifkin tut­ta­via non fa cenno al fatto che l’industria dei Big data è potuta pro­spe­rare gra­zie pro­prio a soft­ware open source.
Det­ta­gli, forse, ma tutto diventa meno con­tin­gente se nel discorso sui com­monsviene igno­rato il fatto che sono pro­dotti all’interno di un regime sala­riato. La riap­pro­pria­zione dei com­mons non può quindi essere svolta senza la cri­tica a quel regime, che ha una appen­dice nei sistemi poli­tici. Il rischio con Rif­kin è di tro­varsi invi­schiati in una pro­spet­tiva di dere­gu­la­tion radi­cale, dove i com­mons più che espres­sione di una coo­pe­ra­zione pro­dut­tiva col­let­tiva sia l’esito di un indi­vi­duo che sce­glie sì di vivere in società, ma solo per­ché per­se­gue con osti­na­zione il pro­prio benes­sere indi­vi­duale. La società a costo mar­gi­nale zero più che a un regno della libertà sem­bra avvi­ci­narsi a una disto­pia dove la mise­ria del pre­sente è ele­vata a sistema.

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