by redazione | 19 Settembre 2014 8:25
LONDRA — Hanno il petrolio, quasi zero disoccupazione, un reddito superiore ai patrioti del sud e sono anche un po’ vichinghi, visto che la città più vicina è la scandinava Bergen e la Norvegia li regalò alla Corona britannica nel Quindicesimo secolo: perché mai i 23 mila abitanti delle 100 isole Shetland (solo 16 abitate) avrebbero dovuto votare sì all’indipendenza della Scozia, che dista 150 chilometri di mare e vuole il loro greggio?
Meglio farsi proteggere dalla lontanissima Londra: già nella consultazione del 1979 il 73% degli shetlander votò contro i secessionisti di Edimburgo. Questa volta il Parlamento autonomo scozzese non è stato liberal: mille abitanti avevano firmato ad aprile una petizione chiedendo un referendum indipendentista. Un altro, da tenersi nell’arcipelago. Una secessione dalla secessione. Però Edimburgo non ha fatto come Londra e ha risposto picche: vi abbiamo già dato molta autonomia. Il referendum oltre il referendum avrebbe dovuto tenersi la settimana prossima. Ieri il ministro per la Scozia Alistair Carmichael ha detto che le Shetland potrebbero diventare territorio autonomo sul modello dell’Isola di Man. Una beffa: come se le Baleari si liberassero della Catalogna se questa si libera della Spagna.
Il dominus e il domino del nazionalismo: se lo svegli parte l’onda. Bye bye scozzesi: altri fermenti autonomisti corrono sulle onde dalle isole Orkney alle Western Isles. Ma sono le Shetland le più ambite e inquiete. L’arcipelago, passato agli inglesi nel 1469 come dote di una principessa danese, divenne nell’800 una delle capitali della pesca alla sardina. Il vero boom è arrivato con la scoperta dei giacimenti nel Mare del Nord negli anni 70 del ‘900: il terminal di Sullom Voe è tra i più grandi d’Europa. Gli shetlander galleggiano sul 20% delle riserve nazionali di petrolio e gas. Gli alberghi dell’unica cittadina, Lerwick, sono pieni di businessmen, nel porto stazionano sei navi da crociera dove vivono i 1.700 dipendenti dell’impianto francese Total. Per questi vichinghi l’ideale sarebbe nessun cambiamento. «Anche il movimento indipendentista rappresenta una minoranza — ha detto ieri al Wall Street Journal il rappresentante dell’amministrazione locale Malcolm Bell —. Però la devolution non si deve fermare a Edimburgo».
La questione dell’indipendenza scozzese ha acceso le spinte localiste in Inghilterra, in misura minore in Galles. E anche lassù, sulla piattaforma isolata delle Shetland popolata più da uccelli marini che da umani (la colonia delle pulcinelle di mare conta 250.000 esemplari). Chi non vorrebbe un po’ di Devo Max (il massimo dell’autonomia)? Quando un giornalista del Guardian ha visitato Lerwick alcuni giorni fa ha trovato bandiere norvegesi nei giardini delle case. Nessuna traccia di Union Jack o di Saltire, il vessillo scozzese. Curiosamente il movimento indipendentista nelle Shetland sembra più rappresentato dai meno giovani (al contrario dei vicini-colleghi di Aberdeen con la loro vibrante Generation Yes). «Meglio il diavolo che conosci», ha detto a Robert Crampton un’insegnante trentenne. E Sonny Priest, padrone della birreria Valhalla Brewery, ha detto ieri al Wsj : «Per la nostra produzione ci servono ingredienti dall’Inghilterra. Indipendenza vuol dire costi più alti».
Meglio restare attaccati a Londra (che produce, o comunque tratta, il 20% della ricchezza del Regno Unito). Petrolio, bandiere norvegesi e pulcinelle di mare, gli shetlander si preparano al festival di metà inverno, Up Helly Aa, che è l’avvenimento principale dell’anno. Gli uomini (molti chiamati Magnus) si fanno crescere barbe da guerrieri, le donne preparano i costumi con i bambini. La vita tranquilla di un arcipelago sperduto nel petrolio. Ma se qualche agenzia turistica basca organizza altri tour indipendentisti dalla Catalogna alla Scozia, gli shetlander sono pronti ad aggiungersi sulla mappa.
Michele Farina
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