by redazione | 5 Settembre 2014 9:59
L’economia è una disciplina che non progredisce col passare del tempo, o per lo meno non progredisce nel senso in cui progrediscono la fisica e la medicina, che via via incorporano e sistemano le teorie precedenti dopo averle emendate dei loro errori e alla luce di nuovi risultati sostanziali.
Esistono invece e coesistono molte teorie rivali, che si disputano l’egemonia culturale e politica; e la teoria neoclassica – in forme nuove e ingegnose ma ridondanti – è ancora oggi la teoria dominante nella professione, nell’opinione comune e comunissima, sebbene nel corso del Novecento a essa siano state mosse due critiche radicali, da parte di J.M. Keynes (1883–1946) e di P. Sraffa (1898–1983).
Si badi bene che tale egemonia della teoria neoclassica, pressoché assoluta nell’Accademia, non lo è tra i policymakers più avvertiti, che di fronte ai problemi pratici si lasciano talora ispirare dalle teorie eterodosse.
Nella storia economica dell’Italia se ne trovano molti esempi.
La teoria egemone ci rappresenta il sistema economico come un sistema in cui l’homo oeconomicus prende le decisioni sul futuro in condizioni di certezza e di conoscenza illimitata, in cui le crisi sono degli accidenti e non la norma, e in cui vi è armonia nella distribuzione del prodotto sociale.
Nelle scelte di politica economica la conseguenza di una simile visione del mondo è la dottrina del laissez-faire.
Credo che anche il lettore comune giudicherà questa visione piuttosto consolatoria che non realistica, e nelle pagine che seguono intendo confortarlo nel giudizio presentandogli le teorie alternative, del tutto rispettabili e non meno robuste di quella neoclassica, di quattro autori che tutti possono dirsi classici: Ricardo, Marx, Keynes e Sraffa (…). Ora questi quattro autori ci descrivono il sistema economico in cui viviamo, che è un sistema storicamente determinato: il capitalismo, come un sistema in cui la distribuzione del prodotto sociale tra le classi è materia di conflitto; in cui la norma è la crisi e non l’equilibrio; e in cui gli agenti prendono le loro decisioni in condizioni di incertezza e sulla base di una conoscenza limitata. Così che un intervento dello Stato sarà necessario se si vogliono almeno medicare i difetti della società economica in cui viviamo: sopra tutti la disoccupazione e una distribuzione arbitraria e ineguale della ricchezza e dei redditi (Giorgio Lunghini, Conflitto, crisi, incertezza. Bollati Boringhieri, 2012, pp. 12–14).
Per quanto riguarda il livello dell’occupazione, Keynes dimostra come esso non sia univocamente determinato dall’operare congiunto sul mercato del lavoro delle due funzioni di domanda e di offerta, così come afferma la teoria neoclassica, bensì da altre forze che agiscono su altri mercati (mercati della moneta, dei capitali, dei beni). In particolare non vi sarebbe necessariamente una relazione inversa tra il salario e l’occupazione: una diminuzione del salario potrebbe anche non essere una condizione sufficiente per generare un aumento dell’occupazione (…).
La Teoria generale si può ridurre a questa proposizione: l’occupazione è quella che i capitalisti decidono di dare, secondo le loro aspettative. Secondo lo stesso Keynes, “La teoria si può riassumere dicendo che, data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione complessiva dipende dall’ammontare dell’investimento”.
Al centro del ragionamento di Keynes sta l’idea che noi, nella realtà, abbiamo soltanto una percezione molto vaga delle conseguenze non immediate dei nostri atti. La nostra conoscenza, in generale e anche per quanto riguarda le decisioni economiche più importanti, è una “conoscenza incerta” (…). Il fatto che la nostra conoscenza sia incerta ha dunque come conseguenza principale la fragilità, la precarietà dell’equilibrio del sistema (pp.87–89). Per Keynes in ogni situazione data vi è un unico livello di occupazione compatibile con l’equilibrio, e tale equilibrio è stabile anche se l’occupazione non è piena. A ciò basta che la domanda aggregata sia uguale all’offerta aggregata. Quest’analisi ci fornisce, secondo Keynes, una spiegazione del paradosso della povertà nel bel mezzo dell’abbondanza: “E’ caratteristica saliente del sistema economico in cui viviamo che, mentre è soggetto a fluttuazioni severe per quanto riguarda la produzione e l’occupazione, esso non è violentemente instabile. In effetti esso sembra capace di permanere in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso” (p.98–99).
Che cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che la disoccupazione e l’ineguaglianza sono dei mali da guarire? Secondo questo Keynes si dovrebbero fare tre cose (…), redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento (pp. 106–108).
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