Il Grande Fratello israeliano e le vite degli altri

by redazione | 18 Settembre 2014 9:50

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Blocco di colo­nie di Gush Etzion, Cisgior­da­nia. Uffi­cio del dipar­ti­mento israeliano per la gestione dei Ter­ri­tori Occu­pati, sezione di Betlemme. Una stanza illu­mi­nata da una neon, un tavolo vuoto al cen­tro. Di fronte, un uffi­ciale dei ser­vizi segreti israe­liani che parla per­fet­ta­mente arabo – con un qual­cosa che ricorda l’accento liba­nese – e ti offre un caffè. È gen­tile, scherza, cerca di met­terti a tuo agio. Ma tu sei ner­voso, cer­chi di man­te­nere la calma. Hai vent’anni, fuori gli anni più duri della la Seconda Intifada.

Resti là den­tro per cin­que ore, men­tre lui ti mostra le foto satel­li­tari di casa tua e quelle dei tuoi geni­tori. Poi ti dice che sa bene che tua madre è malata di cuore e le farebbe comodo una visita spe­cia­li­stica in Israele. Anche tuo padre è malato, va a curarsi in Gior­da­nia ogni due o tre mesi: ora l’ufficiale ti minac­cia, o ci aiuti o la pros­sima volta lo bloc­chiamo al con­fine e in Gior­da­nia a curarsi non ci va. Ma tu, niente, non cedi. Allora tira fuori tuo fra­tello: lavora in Israele, ha un per­messo di lavoro. Se non col­la­bori, glielo togliamo e perde il lavoro.

Quella di Y. non è una sto­ria par­ti­co­lare. Nei Ter­ri­tori è la nor­ma­lità: «Lo fanno con tanti, con­ti­nua­mente –spiega al mani­fe­sto il gio­vane – Pos­sono fer­marti ovun­que, in qual­siasi momento: pos­sono bloc­carti al con­fine di ritorno dalla Gior­da­nia, per strada durante un con­trollo. A me il Mukha­ba­rat [ser­vizi segreti in arabo] israeliano ha con­se­gnato l’ordine di com­pa­ri­zione men­tre andavo a com­prare un pollo, per il pranzo del venerdì. Era il 2002, in piena Seconda Intifada».

«Lo fanno soprat­tutto con i ragaz­zini, i più deboli. Ti pro­met­tono denaro e aiuto per entrare in Israele. Oppure ti minac­ciano: di te sanno tutto, quanti siete in fami­glia, di che malat­tia sof­fre tuo padre, se tuo fra­tello ha pro­blemi con l’esercito. E usano que­ste infor­ma­zioni per costrin­gerti a col­la­bo­rare. Ti ricat­tano e devi essere bravo a non caderci. Se ci cadi, è un tun­nel senza via di uscita».

“Omar”, il film pale­sti­nese finito alla Notte degli Oscar il feb­braio scorso, lo rac­conta bene: un sistema che ricorda il Kgb nella Ger­ma­nia dell’Est o il Grande Fra­tello di Orwell. Un sistema oliato e vastis­simo, capace di con­trol­lare ogni sin­golo pale­sti­nese. Rac­colte le infor­ma­zioni, indi­vi­duate le debo­lezze, scatta il ricatto da parte israe­liana. Alcuni sono costretti ad accet­tare di diven­tare col­la­bo­ra­tori, un feno­meno ampio ma dif­fi­cil­mente quan­ti­fi­ca­bile, di cui spesso i pale­sti­nesi pre­fe­ri­scono non par­lare, pre­fe­ri­scono mini­miz­zare. Alla prima di “Omar” nel cinema Yabous di Geru­sa­lemme Est, gli spet­ta­tori pale­sti­nesi sono usciti con l’amaro in bocca: «Bel film, ma non è vero che i col­la­bo­ra­tori sono così tanti, que­sto è una pel­li­cola da occidentali».

In realtà, lo sanno tutti e lo sanno bene: il con­trollo è pres­so­ché totale. Si parla con tutti, ma ci si fida di pochi. Per­ché Israele sa tutto – o quasi – di tutti. Ascolta le tue tele­fo­nate, legge le tue e-mail e la tua cor­ri­spon­denza, sa se qual­cuno in fami­glia ha biso­gno di cure spe­cia­li­sti­che, sa se un marito tra­di­sce la moglie o se un ragaz­zino è omo­ses­suale e non può dirlo. Lo sa per­ché spia. Per farlo le auto­rità israe­liane hanno creato una spe­ci­fica unità mili­tare, l’unità 8200, in ebraico Yehida Shmoneh-Matayim. Una delle più segrete, ma oggi por­tata ai diso­nori delle cro­na­che da 43 uffi­ciali, ex istrut­tori e sol­dati che dopo aver ser­vito nella 8200 hanno deciso di uscirne.

Con una let­tera indi­riz­zata al pre­mier Neta­nyahu, al capo dell’esercito e al capo dei ser­vizi segreti, i 43 si sono tirati fuori da un sistema che defi­ni­scono volto alla «per­se­cu­zione poli­tica e per­so­nale», allo spio­nag­gio inva­sivo e folle di tutta la popo­la­zione pale­sti­nese. Lo dicono chia­ra­mente, nella loro let­tera: il nostro lavoro non con­si­ste nel cer­care infor­ma­zioni su sog­getti che vor­reb­bero com­piere atti con­tro Israele, su mili­ziani o mem­bri di par­tito. Que­sta non è che una minima parte del lavoro. La quo­ti­dia­nità del lavoro è un’altra: si spia siste­ma­ti­ca­mente ogni aspetto della vita pale­sti­nese, di ogni per­sona resi­dente nei Territori.

«Noi, vete­rani dell’unità 8200, riser­vi­sti del pas­sato e del pre­sente, dichia­riamo di rifiu­tare di pren­dere parte in azioni con­tro i pale­sti­nesi e rifiu­tiamo di con­ti­nuare a ser­vire come stru­menti di con­trollo mili­tare nei Ter­ri­tori Occu­pati», si legge nell’incipit della let­tera. E poi ancora: «La popo­la­zione pale­sti­nese sotto legge mili­tare è com­ple­ta­mente espo­sta allo spio­nag­gio e la sor­ve­glianza dell’intelligence israe­liana. È usata a fini di per­se­cu­zione poli­tica e di divi­sione interna della società, attra­verso il reclu­ta­mento di col­la­bo­ra­tori e met­tendo una parte della società pale­sti­nese con­tro l’altra».

La presa di posi­zione non è ovvia­mente pia­ciuta ai ver­tici israe­liani: il mini­stro della Difesa Ya’alon l’ha defi­nita un ten­ta­tivo «folle e offen­sivo» di dan­neg­giare l’unità, men­tre l’esercito ha pro­messo un’azione disci­pli­nare «chiara» con­tro i neo obiet­tori di coscienza. La minac­cia arriva da Face­book e dall’ultimo post del por­ta­voce delle forze armate, Motti Almoz: «Non c’è posto per il rifiuto nell’esercito israeliano ». Alla fac­cia della democrazia.

Non è pia­ciuta nem­meno ai col­le­ghi, ai com­mi­li­toni dell’unità 8200, che in una contro-lettera si sono dis­so­ciati dalle posi­zioni dei 43: «Espri­miamo lo choc, il disgu­sto e la com­pleta dis­so­cia­zione da quella deplo­re­vole let­tera. Il rifiuto poli­tico non ha spa­zio qui, nell’unità 8200. Il momento in cui siamo chia­mati a ser­vire la ban­diera, met­tiamo da parte le nostre incli­na­zioni poli­ti­che e le nostre opi­nioni e ser­viamo lo stato». Parole che con­fer­mano quanto descritto dai 43 obiet­tori: l’ambiente in cui l’attività di spio­nag­gio si rea­lizza – spie­gano – tra­suda di machi­smo e impu­nità: nes­suno osa met­tere in discus­sione un ordine, anche se que­sto si rivela mor­tale per pale­sti­nesi inno­centi, come avve­nuto negli anni pas­sati con raid con­tro Gaza, mirati ad ucci­dere un lea­der di Hamas e con­clu­sisi con stragi di civili. Si scherza, si ride, quando si ascol­tano le tele­fo­nate per­so­nali del pale­sti­nese spiato.

«Dopo aver ser­vito nei corpi di intel­li­gence – ha rac­con­tato uno dei fir­ma­tari al The Guar­dian – ho avuto un momento di choc men­tre guar­davo il film ‘Le vite degli altri’, sulla poli­zia segreta nella Ger­ma­nia dell’Est. Da una parte mi sono sen­tito soli­dale con le vit­time, gli oppressi a cui era negato ogni diritto fon­da­men­tale che a me è garan­tito. Dall’altra parte ho rea­liz­zato che il mio lavoro era pro­prio quello, quello dell’oppressore. Tutti i pale­sti­nesi sono espo­sti ad un moni­to­rag­gio no-stop senza alcuna pro­te­zione legale. Un sol­dato sem­plice può deci­dere da solo se qual­cuno è meri­te­vole di diven­tare tar­get. Non si sono pro­ce­dure da seguire né modi per deter­mi­nare vio­la­zioni dei diritti. Non esi­ste il con­cetto di diritto per i pale­sti­nesi. Ogni pale­sti­nese è un obiet­tivo e può subire san­zioni come il rifiuto di un per­messo in Israele, abusi fisici, estorsioni».

Alla let­tera i 43 obiet­tori di coscienza hanno alle­gato una serie di testi­mo­nianze dirette di quello che era il lavoro di uffi­cio nell’unità 8200. I tar­get, «pale­sti­nesi inno­centi non affatto con­nessi con atti­vità mili­tari». Un Grande Fra­tello super tec­no­lo­gico (si dice che dal quar­tier gene­rale della 8200 sia par­tito il virus Stu­x­net che attaccò il pro­gramma nucleare ira­niano) che imma­gaz­zina ogni infor­ma­zione sen­si­bile – dai pro­blemi finan­ziari alla salute, dalle pre­fe­renze ses­suali ai tra­di­menti – e la usa per estor­cere una col­la­bo­ra­zione, for­zarla, spez­zare le nor­mali rela­zioni interne della società palestinese.

Per­ché alla fine, è que­sto il risul­tato: una società fra­gile, minata alla base dalle poli­ti­che divi­so­rie messe in piedi dall’occupante, nel quale alla fine potre­sti non fidarti più di nes­suno, né dei tuoi amici di infan­zia né ella tua fami­glia. «Qual­che tempo dopo il mio inter­ro­ga­to­rio – con­clude Y. – hanno arre­stato un mio amico, attivo con me all’università, impe­gnato in poli­tica da una vita. Era la mia guida. Dopo tre set­ti­mane di inter­ro­ga­to­rio, ha ceduto. Ha deciso di par­lare, col­la­bo­rare. Quella sera ho pianto».

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