Gli arrabbiati ungheresi di Jobbik «Eredi di Attila» contro gay e rom

Gli arrabbiati ungheresi di Jobbik «Eredi di Attila» contro gay e rom

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BUDAPEST Quando i Karpathia intonano «Justice for Hungary», punta di lancia del loro rock nazionalista, il popolo di Jobbik è in delirio. Nulla entusiasma i giovani arrabbiati dell’estrema destra ungherese più della mistica della nazione negletta, vittima di tutte le ingiustizie della Storia e oggetto di ogni cospirazione globale, fosse ebraica, capitalista, euro-germanica, perfino omosessuale.
«Cari discendenti di Attila», ama arringare i suoi seguaci il giovane leader, Gabor Vona, invocando per la razza magiara una dubbia discendenza iranica dagli Unni e più indietro dai Sumeri. Ma dietro le anticaglie della retorica, comprensive di croci frecciate e manuali sciamanici, karaoke nazionalisti, folklore e milizie in uniforme, Jobbik sa muoversi anche nella modernità: usa i social network, impazza su Facebook dove Vona ha oltre 300 mila likes, ha siti d’informazione come Kuruc Info e Alfahir , cura un circuito culturale e artistico nelle università, molto popolare tra professori e studenti.
Soprattutto, Jobbik è ormai radicato nel panorama politico danubiano. Votato da 1 ungherese su 5 alle elezioni d’aprile, è il più forte partito dell’ultradestra nell’Europa centrale e orientale. Con un paradosso: invece di essere indebolito dalla direzione autoritaria, nazionalista e antieuropea data al Paese dal premier Viktor Orbán, che con una maggioranza dei due terzi in Parlamento ha fatto del suo Fidesz un partito-Stato, Jobbik continua a rafforzarsi e condiziona da destra il governo.
Spiega Tamas Gaspar-Miclos, professore di filosofia politica e coscienza critica della nazione: «Jobbik parla all’Ungheria profonda: è contro il consenso europeo, si identifica con i perdenti della Seconda guerra mondiale, vorrebbe ridar vita alla Grande Ungheria precedente al Trattato del Trianon del 1920, è antioccidentale, antisemita anche se i suoi dirigenti sono bravi a mimetizzarsi, ma in primo luogo è antirom, quasi 1 milione di persone, contro i quali incita alla violenza e offre soluzioni inquietanti come la deportazione».
Non è, almeno a prima vista, l’impressione che si riceve dialogando con Marton Gyongyosi, numero due del gruppo parlamentare di Jobbik, persona affabile ed elegante. «Noi siamo combattenti per la libertà, in Ungheria abbiamo sempre resistito alle aggressioni, anche quando eravamo senza speranza. Ieri era l’Urss, oggi è l’Ue, centralizzata, burocratica, corrotta, che vorrebbe dirci come dobbiamo vivere. La buona notizia è che in Europa non siamo più i soli a dirlo. Certo se la direzione è questa, all’Ungheria non resterà che andarsene». E i vostri legami con i gruppi violenti, la Guardia Magiara per esempio, che nel 2011 occupò militarmente un villaggio di rom? «Nessuno ha mai dimostrato che la Guardia Magiara compì un solo atto violento». Però i giudici l’hanno sciolta. «Giustizia politica». E l’antisemitismo? «Critichiamo Israele per il genocidio dei palestinesi a Gaza, per questo ci accusano di essere antisemiti». Ma voi avete accusato in passato gli ebrei di volersi comprare l’Ungheria. «Lo disse Shimon Peres a un gruppo di investitori. Abbiamo solo chiesto un’indagine su quelle affermazioni». E i rom? «Noi vorremmo integrarli, ma non possono più vivere a spese dei nostri contribuenti. Anche perché hanno un tasso di natalità altissimo, mentre quello ungherese è molto basso».
Gyongyosi è l’ambasciatore di Jobbik presso l’ultradestra dell’Europa di mezzo e dell’Est. Ma in questo ruolo ha vita difficile, nonostante l’ambizione di fare del partito il cuore di un’alleanza «dall’Adriatico al Baltico».
Solo con i polacchi di Ruch Narodowy, il movimento nazionale guidato da Robert Winnicki, che considera l’omosessualità una «piaga», odia gli ebrei, denuncia la cabala degli interessi occidentali e dispone di un braccio armato, Gyongyosi ha una parvenza di dialogo, scandito da contatti e visite. Ma qui, il pomo della discordia è la Russia, odiata dai nazionalisti polacchi in ogni sua espressione politica. Jobbik invece, ecco un altro paradosso, intrattiene ottimi rapporti con l’estrema destra moscovita. Di più, come il governo di Orbán, difende Vladimir Putin nella vicenda ucraina ed è schierato contro le sanzioni a Mosca.
Poco Gyongyosi ha ottenuto nella vicina Slovacchia, dove Slovenska Pospolitost, guidata da un leader ventenne, Hromoslav Skrabak, teorizza «metodi umanitari» per ridurre la fertilità dei rom e sogna di creare una unione pan-slavica «depurata» da ogni contaminazione etnica. Ancora meno a Bucarest. In Croazia, interlocutore di Jobbik è l’Hsp, il Partito Croato della Destra, che denuncia la svendita del Paese al neo-capitalismo liberale straniero. Difficili anche se attivi i rapporti con i nazionalisti bulgari del Vmro, inesistenti quelli con Ataka, il più estremista dei partiti di Sofia. «La difficoltà di tessere un filo comune dimostra che in Europa centrale e orientale, l’orizzonte dell’estrema destra è talmente nazionalista da impedire collegamenti internazionali significativi, sul modello di quanto avviene nell’Europa occidentale», spiega Anton Pelinka, docente di questioni nazionali alla Central European University di Budapest. «Le faccio un esempio, quando Jobbik parla del ritorno alla Grande Ungheria è uno schiaffo in faccia a slovacchi e rumeni, perché quella comprendeva pezzi di territorio che oggi appartengono a Slovacchia e Romania». La discriminante, secondo Pelinka, è che a Occidente la destra vince «cavalcando l’immigrazione, la paura dell’Islam, usando addirittura accenti moderni, come la difesa dei diritti delle donne contro l’oscurantismo musulmano e ha messo la sordina all’antisemitismo». Mentre negli ex Paesi comunisti l’estrema destra è ferma ai primi del Novecento, «nazionalista, antisemita, antirom, amante delle vecchie teorie cospirative».
Ma l’ossimoro di un nazionalismo internazionale non è ragione per sottovalutare il ruolo di Jobbik: «Il suo successo può servire da modello per le forze di altri Paesi, Vona sta riuscendo a dare un’immagine più presentabile al partito, anche se rimane estremo e pericoloso. Muove la conversazione nazionale verso posizioni gravi, in tema di memoria, stranieri, protezionismo, costringendo il governo a rincorrerlo», dice Peter Kreko, direttore di Political Capital.
A proposito di rincorsa, nel centro di Budapest, questa estate, Viktor Orbán ha fatto erigere in una notte un brutto monumento «alle vittime» dell’occupazione nazista del 1944. Un’aquila minacciosa e ferrigna aggredisce un arcangelo Gabriele, la nazione magiara innocente. Ricostruzione quanto meno revisionista, lodata da Jobbik: furono le Croci Frecciate, il partito fascista ungherese all’epoca al governo, a farsi volenteroso carnefice di Hitler, organizzando l’uccisione o la deportazione ad Auschwitz di oltre 400 mila ebrei. Una sfilza di vecchie scarpe, in ricordo di quelle che i fascisti magiari facevano togliere agli ebrei prima di gettarli nel Danubio, è stata depositata davanti al memoriale. Qualcuno, in Ungheria, vuole ancora ricordare come andò veramente.



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