by redazione | 19 Settembre 2014 9:01
ROMA — La spending review non otterrà i risultati sperati senza ricomprendere nei tagli anche le pensioni. A dirlo è il Fondo monetario internazionale, che ieri ha rivisto al ribasso la stima del prodotto interno lordo 2014 per l’Italia, dopo i dati di Standard & Poor’s e dell’Ocse, anch’essi negativi. Secondo il Fmi, la ricchezza prodotta sarà in calo dello 0,1%. L’ennesima flessione dopo le frenate dell’ultimo biennio (-2,4% nel 2012 e -1,9% nel 2013). Nella precedente previsione di luglio il Fondo monetario stimava il Pil in crescita dello 0,3%. «I rischi restano ancorati al ribasso», sentenziano gli economisti del Fondo, ricordando, tra l’altro, fattori come le «tensioni geopolitiche, la possibilità di una stagnazione e una bassa inflazione». Gli analisti di Washington si aspettano un segnale di ripresa per il 2015, con il Pil in aumento dell’1,1%. Un tasso di crescita destinato a mantenersi costante fino al 2019.
Un quadro poco rassicurante nell’immediato, sebbene il Fondo esprima un giudizio positivo sui progetti di riforma messi in cantiere dal premier Matteo Renzi. La legge elettorale, per esempio, è un contributo al sostegno e all’attuazione delle riforme. Bene anche l’intervento sulla giustizia e sul lavoro. Le note dolenti arrivano invece sulla spesa pubblica. Risparmi significativi ci saranno solo se si interviene anche sulla «grande spesa pensionistica. La spesa per le pensioni italiana — osservano — è la più alta d’Europa, pari a circa il 30% del totale». È appena il caso di ricordare che il piano del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, che proprio dal Fondo viene e al Fmi sta per tornare, suggeriva al governo diversi tagli alla spesa previdenziale e assistenziale (pensioni d’oro, assegni di accompagnamento, pensioni d’invalidità, reversibilità) che però Renzi ha deciso di scartare perché impopolari.
A preoccupare il Fondo è anche il tasso di disoccupazione: alla fine dell’anno sarà ai massimi dal dopoguerra, toccando il 12,6%. Secondo il dossier dedicato all’Italia, nel 2017 la disoccupazione sarà ancora al 10,5%. A questo si aggiunga che l’istituto si attende per quest’anno un debito al 136,4% del Pil, con un deficit che ondeggerà vicino alla soglia del 3,0%. Spiegando che l’Italia deve «muoversi rapidamente sulle riforme», l’istituto di Washington guidato da Christine Lagarde valuta positivamente l’idea di modificare le regole del mercato del lavoro, introducendo un «singolo contratto. Ciò porrebbe i lavoratori in una situazione più equa — spiega l’analisi — incentivando i datori di lavoro ad investire nel proprio staff».
Il giudizio favorevole cade nelle ore del via libera al Jobs act, da parte della commissione lavoro al Senato. Il governo proprio ieri ha, infatti, registrato il primo passo in avanti nell’iter del disegno di legge delega sulla riforma del lavoro. Il voto della commissione segna un punto a favore del superamento dell’articolo 18, grazie all’approvazione dell’emendamento dell’esecutivo, che introduce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (in pratica la possibilità di licenziare anche senza giusta causa, riconoscendo al lavoratore un indennizzo in base all’anzianità acquisita). La delega sul lavoro approderà tra martedì e mercoledì nell’emiciclo del Senato. Una volta in aula il provvedimento dovrebbe passare senza particolari difficoltà. Le insidie maggiori, stante l’opposizione crescente del mondo sindacale e delle minoranze del Pd, si annidano in commissione Lavoro alla Camera. Renzi, peraltro, ha già minacciato di ricorrere alla decretazione d’urgenza in caso di ritardi.
Andrea Ducci
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