Dietro i raid contro lo Stato Islamico l’ombra della guardia nazionale sunnita
La seconda ondata di attacchi aerei in Siria della coalizione arabo-sunnita guidata dagli Stati Uniti, si è concentrata nella regione orientale di Dayr az Zor, al confine con l’Iraq, contro postazioni dello Stato islamico. I bombardieri Usa sono tornati a colpire anche il valico frontaliero di Albukamal-Qaim, hanno detto fonti siriane. Il Pentagono ha confermato un attacco in Siria e altri 4 in Iraq, vicino a Baghdad e Erbil. E agli aerei degli Usa e di cinque paesi arabi – Arabia saudita, Qatar, Emirati, Giordania e Bahrain – potrebbero presto unirsi anche quelli britannici. La convocazione del Parlamento di Londra in sessione straordinaria è stata fissata per domani. Il premier Cameron vuole una risposta alla richiesta di aiuto avanzata dal governo iracheno.
Da parte sua Barack Obama ieri si è rivolto a tutti i musulmani. Per dire, davanti alla platea del Palazzo di Vetro riunita per l’appuntamento annuale, che gli Stati Uniti non sono in guerra con l’Islam. Ha incitato le comunità musulmane a respingere con forza l’ideologia di Al Qaida e dello Stato Islamico. Ha esortato i giovani a onorare la tradizione dell’islam, ossia l’istruzione, l’innovazione e la dignità della vita. «L’Islam insegna la pace e milioni di musulmani-americani fanno parte del nostro Paese. Non è uno scontro di civiltà», ha proclamato. Alla fine pochi applausi. Una reazione fredda che non sorprende. E’ lontano il Barack Obama del 2009, il presidente Usa che all’Università del Cairo, con il suo discorso rivolto ai musulmani, agli arabi, ai palestinesi, aveva fatto intravedere l’alba di un giorno di nuove relazioni tra l’America e un mondo sul quale il suo predecessore George W. Bush aveva infierito. Quel giorno non è mai arrivato. Ma non è solo questo. Ciò che sconcerta è la proponda ambiguità della linea mediorientale del presidente americano. Obama lancia le sue migliori forze militari nella campagna contro “l’oscuratismo e il fanatismo” sapendo che gli Usa hanno di fatto aiutato la crescita di gruppi come lo Stato Islamico, assieme a quei paesi arabi che per anni hanno progettato e realizzato la devastazione dell’Iraq e della Siria finanziando l’estremismo religioso. Il presidente americano sa che l’Arabia saudita ha soffiato sul fuoco della sollevazione dei sunniti in Iraq contro il “governo sciita” aprendo la strada alle alleanze sul terreno che hanno favorito l’eccezionale avanzata delle forze agli ordini dell’emiro dello Stato Islamico, Abu Bakr al Baghdadi. Sa che ancora i sauditi, il Qatar e la Turchia hanno aiutato la crescita del salafismo jihadista in Siria, per abbattere l’apostata Bashar Assad alleato nel nemico iraniano. Sa che Ankara esita ad entrare nella “coalizione” perchè con i jihadisti ha stabilito intese segrete che hanno portato nei giorni scorsi al ritorno a casa degli ostaggi turchi in cambio della piena libertà per i mujahedin feriti in combattimento e curati negli ospedali turchi. Sa che la Giordania ha liberato (ieri) con una sentenza di piena assoluzione Abu Qatada — braccio destro per anni di Osama bin Laden in Europa — perchè i servizi segreti di re Abdallah con l’indulgenza nei confronti della vecchia al Qaeda ritengono di poter ottenere un aiuto per contenere la penetrazione dello Stato Islamico nel regno hashemita.
Sa e tace perchè gli obiettivi da raggiungere sono centrali per gli interessi statunitensi in Medio Oriente e per quelli degli alleati che finanziano-combattono i “terroristi”. Quello più a portata di mano è la fratumazione dell’Iraq e della Siria, tanto desiderata dall’Arabia saudita che vi scorge una possibilità concreta per limitare subito l’influenza nella regione di un Iran che ora preme alla sua porta meridionale, grazie all’ascesa dei ribelli Houthi (sciiti) inYemen. Assisteremo perciò a un replay, in Iraq e anche in Siria, delle politiche un tempo adottate da Bush e che Obama sta rispolverando. Ossia impiegare tribù, clan, gruppi di potere sunniti per contenere lo Stato islamico, così come fece l’ex presidente Usa qualche anno fa in Iraq contro al Qaeda. E’ chiaro il capo degli stati maggiori Usa, Martin Dempsey, quando ha detto davanti al Senato: «Il nostro piano è quello di separare le tribù sunnite dallo Stato islamico». Ma la contropartita stavolta deve essere più generosa. Non integrare le milizie sunnite nell’esercito nazionale ma creare una Guardia Nazionale dei sunniti iracheni, sotto il comando dei governi locali. Durante la sua visita a Baghdad, il Segretario di Stato John Kerry ha ottenuto l’approvazione del primo ministro Haidar Abadi al progetto. Anche questo spiega l’insistenza con la quale gli americani hanno voluto l’allontamento dell’ex premier iracheno Nouri al Maliki, che senza dubbio ha commesso errori gravi nella gestione dei rapporti con la minoranza sunnita ma che agli occhi degli americani era colpevole soprattutto di fare ciò che voleva l’Iran.
Il modello della Guardia Nazionale è quello che gli americani hanno in mente anche per il futuro di una Siria spaccata in più parti. Anche lì i sunniti avranno una propria Guardia, forte abbastanza per arginare (e poi assorbire i combattenti siriani dello Stato Islamico) e per combattere l’Esercito regolare siriano e i suoi alleati libanesi di Hezbollah. Un disegno che spiega perché l’Iran, sia pure tra ambiguità e contraddizioni, ha sospeso il coordinamento che aveva con gli Stati Uniti nella lotta allo Stato islamico. Tehran desidera la fine del “califfato” di al Baghdadi ma al suo posto non vuole ritrovarsi altri nemici, più potenti e meglio armati. L’altra sera il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, alleato di Damasco e Tehran, è stato perentorio quando ha proclamato la sua opposizione all’ingresso del Libano nella coalizione. «Secondo noi l’America è la madre del terrorismo, la fonte del terrorismo – ha detto in diretta tv — Se c’è terrorismo nel mondo, guardate all’America».
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