Così Obama ha riscritto la sua «dottrina»
NEW YORK Quattro mesi fa, pronunciando un discorso davanti ai cadetti neolaureati dell’Accademia militare di West Point, Barack Obama aveva ridisegnato la sua «dottrina»: un’America che continua a esercitare la sua leadership sul mondo anche sul piano militare perché «se non lo facciamo noi non lo fa nessuno», ma che fa meno affidamento sulla forza del suo dispositivo bellico e punta di più sull’economia, la cooperazione, la convenienza a convivere pacificamente per sviluppare i commerci.
Allora il presidente Usa aveva anche tratteggiato uno scenario — il ritiro dall’Iraq, quello, ormai prossimo, dall’Afghanistan, e le sanzioni alla Russia che avrebbero dovuto spingere Putin a fermare la sua aggressione all’Ucraina — che i fatti dell’estate (l’ostinazione del Cremlino che ha continuato a fomentare sommosse e il rapido rafforzamento dell’Isis) hanno mandato in frantumi. Così il 10 settembre, alla vigilia dell’anniversario degli attentati di Al Qaeda del 2001, i più sanguinosi della storia americana, Obama ha cambiato rotta annunciando una campagna aerea anche contro le basi del «califfato» in Siria.
Col primo, massiccio attacco nella notte tra lunedì e martedì, tuttavia, la Casa Bianca ha voluto dimostrare sul campo che i principi di fondo della «dottrina Obama» non cambiano, almeno per quanto riguarda il coinvolgimento degli alleati nelle operazioni militari. Da qui l’impegno diretto richiesto soprattutto ai Paesi dell’area del conflitto: i più interessati a eliminare un cancro, quello dell’Isis, che minaccia tutti ma soprattutto loro. Per questo l’insistenza del Pentagono e dello stesso Obama sul fatto che ben cinque alleati mediorientali degli Stati Uniti — l’Arabia Saudita, gli Emirati arabi, il Qatar, il Bahrein e la Giordania — hanno partecipato (direttamente o con un ruolo di supporto) al massiccio attacco dal cielo.
Quasi enfatiche le parole del presidente americano sul prato della Casa Bianca prima di imbarcarsi sull’elicottero con destinazione New York per l’assemblea annuale dell’Onu dove cercherà di allargare e dare ancor maggiore consistenza a quest’alleanza guidata dagli Stati Uniti: «L’America è orgogliosa di combattere spalla a spalla con questi Paesi amici per difendere l’interesse comune alla sicurezza». E ancora: «La forza di questa coalizione fa emergere con chiarezza che questa non è una guerra americana, non siamo solo noi a combattere».
In realtà, l’altra notte il grosso dello sforzo militare è stato sostenuto dagli americani. Ma anche i simboli contano. L’altro punto della sua dottrina che Obama ha voluto ribadire col raid dell’altra notte, servito ad attaccare anche le basi di un’altra formazione di ribelli, il gruppo Khorasan, è che gli Stati Uniti si riservano il diritto di intervenire militarmente, in modo diretto e senza preavviso, quando verificano l’esistenza di una minaccia concreta e grave nei confronti dell’America. Quella rappresentata da questo gruppo, filiazione diretta di Al Qaeda, lo era, ha spiegato ieri il Pentagono.
Così i jet americani hanno colpito queste installazioni attorno Aleppo forse con maggiore durezza rispetto all’attacco all’Isis. Che questa strategia sia efficace rimane, ovviamente, tutto da dimostrare: gli attacchi dal cielo senza un adeguato supporto di truppe sul campo possono arrivare solo fino a un certo punto. E il massacro di soldati iracheni in una base appena assaltata dall’Isis non lontano da Bagdad dimostra che c’è ancora molto da fare per avere eserciti locali ben equipaggiati e addestrati a combattere una formazione terrorista.
Massimo Gaggi
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