La VI Sezione Penale (presidente Milo, relatore Di Stefano) ha accolto il ricorso del Pg della Corte d’Appello di Sassari avverso la condanna confermata dalla stessa Corte il 7 febbraio 2013 contro P.A. per aver coltivato due piante di canapa indiana.
La decisione assume un particolare rilievo perché viene dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la 32/2014, che ha annullato l’unificazione del trattamento sanzionatorio per le diverse droghe previsto dalla Fini-Giovanardi e sollecitato il Parlamento ad affrontare finalmente un punto controverso che provoca assurde persecuzioni, soprattutto di giovani che amano prodursi la sostanza senza ricorrere al mercato illegale.
Tanti giudici di merito e diverse sezioni della Cassazione si sono confrontati con il senso del dettato della legge che distingue nettamente tra detenzione e coltivazione.
Infatti mentre la detenzione per uso personale, risulta pacifico, è soggetta a sanzione amministrativa, la coltivazione sempre e comunque comporterebbe una sanzione penale.
Lo spartiacque è stato rafforzato dalla sentenza 28605 del 2008 delle Sezioni Unite della Cassazione che ribadiva che la condotta della coltivazione non poteva essere sottratta al rilievo penale perché non è menzionata nell’art. 75 della legge antidroga tra i comportamenti soggetti ad illecito amministrativo. Aggiungeva anche una valutazione risibile in quanto la coltivazione «merita un trattamento diverso e più grave» rispetto alla detenzione, per il solo fatto di aumentare la quantità complessiva di stupefacenti presenti sul mercato. Il carattere ideologico, fondato su un pregiudizio moralistico, era reso evidente da una retorica conclusione: l’azione poneva in pericolo «la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico e la salvaguardia delle giovani generazioni». La sentenza, che si limita ad una lettura pedissequa, meccanica e superficialmente riduttiva di un fenomeno storicamente e culturalmente complesso, non ha alcun pregio giuridico e interpretativo.
E infatti è stata contraddetta dalle sentenze, che abbiamo commentato in questa rubrica, di giudici come Salvini, Pilato, Renoldi e da alcune sezioni della Cassazione. La recente sentenza non si confronta con gli argomenti sostenuti in precedenza, in particolare la differenza tra coltivazione industriale e «casalinga», e la presenza drogante nella pianta, ma valorizza la destinazione all’uso personale sotto il profilo del principio di offensività come delineato dalla Corte Costituzionale soprattutto nelle sentenze 360/1995 e 260/2005.
Se da una parte si pone il principio dell’offensività in astratto – rileva la sentenza – dall’altro si pone l’accertamento del fatto, l’offensività in concreto, affidato al giudice. Si tratta di una rottura del tabù.
La via maestra è però quella della politica. Come sosteneva Giancarlo Arnao, la Convenzione di Vienna sulle droghe del 1988, al par. 2 dell’art. 3, equipara la coltivazione per consumo personale al possesso e all’acquisto. È davvero ora che sia definita la liceità della coltivazione personale o all’interno dei social cannabis club, come prevede la legge dell’Uruguay, sottraendola alla discrezionalità del giudice. Bisogna evitare processi inutili, che portano ad assoluzioni perché il fatto non costituisce reato.
La giustizia deve essere liberata dalla caccia alle streghe.
Vedi il dossier sulla canapa domestica sul sito www?.fuo?ri?luogo?.it