Coltivare la marijuana in vaso non è reato

Coltivare la marijuana in vaso non è reato

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Una recente sen­tenza della Cas­sa­zione, la 33835 del 29 luglio 2014, ha affer­mato con net­tezza che la col­ti­va­zione di poche piante di marijuana in un vaso, desti­nate ad uso esclu­si­va­mente per­so­nale non costi­tui­sce reato secondo quanto pre­vi­sto dall’art. 73 della legge sulla droga 309/90.

La VI Sezione Penale (pre­si­dente Milo, rela­tore Di Ste­fano) ha accolto il ricorso del Pg della Corte d’Appello di Sas­sari avverso la con­danna con­fer­mata dalla stessa Corte il 7 feb­braio 2013 con­tro P.A. per aver col­ti­vato due piante di canapa indiana.

La deci­sione assume un par­ti­co­lare rilievo per­ché viene dopo la sen­tenza della Corte Costi­tu­zio­nale, la 32/2014, che ha annul­lato l’unificazione del trat­ta­mento san­zio­na­to­rio per le diverse dro­ghe pre­vi­sto dalla Fini-Giovanardi e sol­le­ci­tato il Par­la­mento ad affron­tare final­mente un punto con­tro­verso che pro­voca assurde per­se­cu­zioni, soprat­tutto di gio­vani che amano pro­dursi la sostanza senza ricor­rere al mer­cato illegale.

Tanti giu­dici di merito e diverse sezioni della Cas­sa­zione si sono con­fron­tati con il senso del det­tato della legge che distin­gue net­ta­mente tra deten­zione e col­ti­va­zione.
Infatti men­tre la deten­zione per uso per­so­nale, risulta paci­fico, è sog­getta a san­zione ammi­ni­stra­tiva, la col­ti­va­zione sem­pre e comun­que com­por­te­rebbe una san­zione penale.

Lo spar­tiac­que è stato raf­for­zato dalla sen­tenza 28605 del 2008 delle Sezioni Unite della Cas­sa­zione che riba­diva che la con­dotta della col­ti­va­zione non poteva essere sot­tratta al rilievo penale per­ché non è men­zio­nata nell’art. 75 della legge anti­droga tra i com­por­ta­menti sog­getti ad ille­cito ammi­ni­stra­tivo. Aggiun­geva anche una valu­ta­zione risi­bile in quanto la col­ti­va­zione «merita un trat­ta­mento diverso e più grave» rispetto alla deten­zione, per il solo fatto di aumen­tare la quan­tità com­ples­siva di stu­pe­fa­centi pre­senti sul mer­cato. Il carat­tere ideo­lo­gico, fon­dato su un pre­giu­di­zio mora­li­stico, era reso evi­dente da una reto­rica con­clu­sione: l’azione poneva in peri­colo «la salute pub­blica, la sicu­rezza e l’ordine pub­blico e la sal­va­guar­dia delle gio­vani gene­ra­zioni». La sen­tenza, che si limita ad una let­tura pedis­se­qua, mec­ca­nica e super­fi­cial­mente ridut­tiva di un feno­meno sto­ri­ca­mente e cul­tu­ral­mente com­plesso, non ha alcun pre­gio giu­ri­dico e interpretativo.

E infatti è stata con­trad­detta dalle sen­tenze, che abbiamo com­men­tato in que­sta rubrica, di giu­dici come Sal­vini, Pilato, Renoldi e da alcune sezioni della Cas­sa­zione. La recente sen­tenza non si con­fronta con gli argo­menti soste­nuti in pre­ce­denza, in par­ti­co­lare la dif­fe­renza tra col­ti­va­zione indu­striale e «casa­linga», e la pre­senza dro­gante nella pianta, ma valo­rizza la desti­na­zione all’uso per­so­nale sotto il pro­filo del prin­ci­pio di offen­si­vità come deli­neato dalla Corte Costi­tu­zio­nale soprat­tutto nelle sen­tenze 360/1995 e 260/2005.

Se da una parte si pone il prin­ci­pio dell’offensività in astratto – rileva la sen­tenza – dall’altro si pone l’accertamento del fatto, l’offensività in con­creto, affi­dato al giu­dice. Si tratta di una rot­tura del tabù.

La via mae­stra è però quella della poli­tica. Come soste­neva Gian­carlo Arnao, la Con­ven­zione di Vienna sulle dro­ghe del 1988, al par. 2 dell’art. 3, equi­para la col­ti­va­zione per con­sumo per­so­nale al pos­sesso e all’acquisto. È dav­vero ora che sia defi­nita la liceità della col­ti­va­zione per­so­nale o all’interno dei social can­na­bis club, come pre­vede la legge dell’Uruguay, sot­traen­dola alla discre­zio­na­lità del giu­dice. Biso­gna evi­tare pro­cessi inu­tili, che por­tano ad asso­lu­zioni per­ché il fatto non costi­tui­sce reato.

La giu­sti­zia deve essere libe­rata dalla cac­cia alle streghe.

Vedi il dos­sier sulla canapa dome­stica sul sito www?.fuo?ri?luogo?.it



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