Una interdizione morale e ideologica, che ha finito con l’assumere nel corso del tempo il peso di un vero e proprio tabù. Il che ha prodotto profonde conseguenze sia sul piano della ricerca scientifica che su quello dell’organizzazione sanitaria e, infine, nella sfera delle politiche pubbliche. Ora, sembra che si sia arrivati a un passaggio cruciale: è in via di formulazione e di definitiva stesura un protocollo tra i ministeri della Difesa e della Salute, frutto di una discussione che ha coinvolto esperti e tecnici dei due ministeri e l’Istituto superiore di sanità. E si va verso la decisione di affidare allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze l’incarico di preparare farmaci cannabinoidi. E’ esattamente quanto abbiamo proposto a partire dal gennaio del 2014 attraverso un disegno di legge, una conferenza stampa, alcuni convegni e numerosi articoli (anche su queste stesse colonne). Accanto al diritto, davvero intangibile, all’auto-coltivazione per uso medico personale da parte dei pazienti, va assicurata una produzione industriale, magari pubblica, dal momento che finora non una sola azienda farmaceutica italiana ha chiesto la relativa licenza. Ebbene, quello Stabilimento di Firenze, dipendente dal ministero della Difesa, ci è sembrata la sede più adeguata per una coltivazione controllata e garantita.
La proposta, che aveva sollecitato l’interesse della direzione dell’istituto, era stata accolta con il massimo favore da parte del ministro della Difesa, Roberta Pinotti. E fu proprio il sottosegretario di quel ministero, Domenico Rossi a illustrare — durante il convegno «La cannabis fa bene, la cannabis fa male» organizzato da «A buon Diritto» e dall’Associazione Luca Coscioni — la «capacità tecnica dello Stabilimento, con uno spettro che potrebbe andare dalla coltivazione al confezionamento», sottolineando, tuttavia, l’esigenza di raggiungere un accordo con il ministero della Salute. Quell’intesa oggi sembra a portata di mano. La tragedia è che ci sono voluti sette anni e tante sofferenze inascoltate perché si arrivasse a questo primo risultato. Risale, infatti, al 2007 il decreto ministeriale firmato da Livia Turco che inserisce il Thc e altri due farmaci analoghi di origine sintetica (il Dronabinol e il Nabilone) nella tabella delle sostanze psicotrope con attività farmacologica, riconoscendone così la legittimità dell’utilizzo in ambito medico. Nel 2013 un ulteriore decreto, emanato dal ministro della Salute Renato Balduzzi, sancisce l’efficacia farmacologica dell’intera pianta della cannabis. Nel frattempo undici regioni (Puglia, Toscana, Marche, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Abruzzo, Sicilia, Umbria, Basilicata, Emilia Romagna) hanno approvato leggi sulla cannabis medicinale. Questi provvedimenti, sebbene disomogenei tra loro, convergono tutti nel prevedere l’erogazione di quei farmaci con spese a carico dei rispettivi servizi sanitari regionali. Nonostante questi dispositivi, però, i numeri raccontano tutt’altro: solo 40 pazienti nel 2013 hanno avuto accesso a quella terapia.
Gli ostacoli sono in primo luogo di natura culturale: il personale sanitario non è adeguatamente informato e medici e farmacisti il più delle volte sono riluttanti a fornire i cannabinoidi. A ciò si aggiunge un iter burocratico complesso e farraginoso. Al presente, questa la procedura: medico curante, azienda sanitaria, ministero della Salute, mercato estero, importazione, farmacia ospedaliera e infine paziente. Ciò porta il costo del prodotto a livelli altissimi, così che un mese di assunzione del farmaco può comportare una spesa di molte centinaia di euro. L’esito è che ancora oggi troppi pazienti si riforniscono al mercato nero.
In conclusione, si può dire che questa vicenda, e il suo probabile risultato positivo, sono sommamente istruttivi: se anche l’uso terapeutico della cannabis è tuttora gravato da un tabù così pesante da impedirne la piena utilizzazione, si può ben capire perché una ragionevole legalizzazione per uso ricreativo incontri tanti ostacoli. Non è un caso che nel momento stesso in cui sembra accertato il consenso del ministro della Salute alla produzione di cannabis medica, il primo interesse di Beatrice Lorenzin sembra quello di affermare la sua irresistibile, impermeabile e inossidabile opposizione a ciò che ella chiama «liberalizzazione». Ci cascano le braccia.
E’ da quarant’anni che gli antiproibizionisti insistono su un punto cruciale: quello vigente oggi in Italia è propriamente un regime di liberalizzazione. Ovvero un sistema che permette a chiunque, a qualunque ora del giorno e della notte, in qualsiasi via o piazza di qualunque città, di acquistare una qualsivoglia sostanza stupefacente presso un’estesa rete di esercizi commerciali: gli spacciatori. Come si vede, un vero e proprio regime di liberalizzazione (illegale).
All’opposto, ciò che vorremmo è una normativa di regolamentazione uguale a quella adottata per altre sostanze perfettamente legali e il cui abuso produce danni assai maggiori di quelli determinati dall’abuso di derivati della cannabis. Dunque, produzione, distribuzione e commercializzazione a carico dello Stato, con adeguata tassazione, e con limiti e vincoli. Ma è davvero così difficile intenderlo?