« Bill il rosso » se ne andò E l’Inghilterra cambiò pelle
«Ogni libro deve avere un mistero». Anche uno scrittore, forse. Quello di David Peace è nell’assenza di indizi. Ogni suo gesto è calmo, quasi eseguito al rallentatore. Nella persona non c’è nulla che riveli il flusso febbrile della prosa di Red or dead , il suo ultimo romanzo, che quasi obbliga chi legge a domandarsi se non sia prova anche di una ossessione personale legata all’atto della scrittura.
«Un amico mi ha detto che questa era la mia autobiografia per interposta persona. Spero che si sbagli, temo che abbia ragione».
Red or dead , pubblicato in Italia dal Saggiatore, è un’opera molto diversa da come si presenta. In apparenza, ma solo in apparenza, sembra la biografia romanzata di Bill Shankly, professione allenatore, unico carpentiere di una identità e di una leggenda, quella del Liverpool. L’idea di usare, come accadde per il precedente libro di Peace Il maledetto United , figure leggendarie del calcio per raccontare costruzione e rovina della società che hanno intorno, diventa qui ancora più esplicita, ed estrema. «Bill il rosso» è uomo dagli ideali antichi e dalle pulsioni totalizzanti. Il lavoro, il tempo che scorre e corrode invisibile da dentro. Fino a sfiorare la malattia mentale, fino a un addio improvviso e inspiegabile nel 1974, alla vigilia dei trionfi europei che altri si intesteranno.
Il mistero di Red or dead è questo. Nel mettere in scena l’ossessione di un uomo, il quarantasettenne David Peace, uno dei maggiori autori inglesi viventi, cresciuto a Leeds, da tempo residente in Giappone, sceglie di andare contro le regole del bello scrivere, usando una tecnica ripetitiva e martellante più vicina alla poesia che alla narrativa. Alla fine l’uscita di scena di Shankly si sovrappone a quella altrettanto oscura di Harold Wilson, il primo ministro laburista che nel 1976 si dimise a metà del suo mandato, aprendo di fatto le porte a Margaret Thatcher. E l’epica di Anfield e del Liverpool fa da cornice al crepuscolo della vecchia Inghilterra.
Mister Peace, il calcio come continuazione della politica con altri mezzi?
«Uno strumento, se vogliamo. O un pretesto. In realtà non volevo scriverne ancora. Dal 2009 al 2011 sono tornato in Inghilterra dopo 15 anni all’estero. Durante questo tempo la mutazione del mio Paese si è compiuta in modo definitivo. Mi sono dato all’archeologia, per far tornare alla luce quel che abbiamo perso in questo passaggio. Cercavo un personaggio che soltanto con la sua vita potesse rappresentare una critica alla società inglese di oggi. Credo di averlo trovato».
Chi era per lei Bill Shankly?
«Un uomo del popolo. Una buona persona. L’ultimo esemplare di un mondo in via di estinzione, l’Inghilterra del welfare e del socialismo umano».
Ne ha un ricordo personale?
«La finale della Coppa d’Inghilterra del 1974, il suo ultimo trionfo. Contro il Newcastle. La doppietta di Kevin Keegan. Tutto in bianco e nero. Un signore con il cappotto che leva le mani come per impartire una benedizione alla folla. Bill Shankly. Poi è scomparso».
Dove lo ha cercato?
«Alla National Library di Tokyo. Nel frattempo eravamo tornati a vivere in Giappone. Shankly è diventato una mia ossessione, aggravata dalla lontananza. Dovevo sapere tutto di lui. Ogni partita, ogni tabellino, ogni cronaca».
Perché li ripropone quasi integralmente?
«Volevo restituire il ritmo frenetico che ha scandito la sua vita. È la storia dei nostri padri, della generazione che è stata capace di costruire un’epopea. Questo impasto di routine e sacrificio, il significato di gesti ripetuti ogni giorno, l’alienazione che ne può derivare. Non puoi parlare del suo ritiro misterioso se prima non racconti il suo lavoro, la sua ossessione che diventa quasi delirio».
«Red or dead» è un libro politico?
«Assolutamente sì. È il racconto della morte della società inglese vista da una diversa prospettiva, attraverso la lente del calcio».
Shankly è l’esemplare di una razza in via di estinzione?
«Era un figlio di minatori, amato dalla gente comune. Quando parla di politica offre una lettura semplice del socialismo. Dice che Gesù è stato il primo socialista. Non sono le sue idee, ma quel che rappresenta».
Rimpiange così tanto la vecchia Inghilterra?
« Red or dead riguarda la perdita di un sentimento comune che ci teneva insieme. In questo senso è un libro nostalgico, ma non voglio fare paragoni con la situazione attuale. Anche perché sulla politica di oggi cambio idea ogni due giorni».
Quando la società inglese è cambiata in modo definitivo?
«Non lo ha fatto in un sol giorno. Nella pancia della Old England c’erano già i germi che avrebbero decretato la morte di quel modello. Ma se devo scegliere una data e un avvenimento dico il 1983, e la rielezione di Margaret Thatcher. Dopo i primi quattro anni della sua cura, era tutto chiaro. C’era ancora la possibilità di salvare il buono che c’era nella vecchia società. Fu un referendum. Gli inglesi scelsero il grande cambiamento».
Le piace il calcio di oggi?
«È la stessa domanda di prima sotto mentite spoglie. Rispondo così: non amo per nulla i soldi e il glamour del quale è intriso. In questo senso rimpiango il calcio di una volta. Poi mi siedo sul divano qui a Tokyo e guardo in diretta la partita del Liverpool con mio figlio».
A parte il misterioso ritiro, cos’altro unisce l’allenatore Shankly e il premier Wilson?
«Sono uomini simili. Uno è genuino, l’altro un po’ artefatto. Shankly non ama i politici, ne diffida. Wilson lo ammirava, voleva essere come lui. Ci teneva a mostrarsi come uomo del popolo, amico dei Beatles, amante del calcio. Ma non sono sicuro che lo fosse».
L’ossessione di Shankly per il calcio riflette la sua per la scrittura?
«Non credo di essere in grado di rispondere a questa domanda».
E perché?
«Non ricordo niente dell’atto di scrivere. Un anno di ricerche, un anno di scrittura. Del primo so tutto, come stavo di salute, i voti dei miei figli a scuola. Del secondo non so nulla. Quando scrivo è come un transfert, come se fossi un altro. Come se fossi Bill Shankly. È quel che faccio. È l’unica cosa che faccio».
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