Articolo 18, un valore per tutti

by redazione | 19 Settembre 2014 9:04

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L’articolo 18 della legge 300/1970 è stato con­si­de­rato per molti anni come il sim­bolo della giu­sti­zia sociale, in fab­brica e fuori. «Il capo gua­da­gna 10 o 100 volte più di me, può fare gli orari e le vacanze che vuole, assu­mere chi gli sta a cuore, però una volta che io sono lì, al lavoro, non può man­darmi via. Il posto di lavoro è anche mio. C’è un giu­dice (a Ber­lino) che, nel caso, me lo darà indietro».

La giu­sti­zia sociale così espressa – lo abbiamo detto e ripe­tuto – era fatta pro­pria da tutti i lavo­ra­tori dipen­denti, del set­tore pub­blico e di quello pri­vato, dai lavo­ra­tori auto­nomi e dai senza lavoro. I dipen­denti pub­blici come gli inse­gnanti, com­presi le gio­vani mae­stre pre­ca­rie, oppure scrit­tori e avvo­cati par­te­ci­pa­rono alla grande mani­fe­sta­zione del Circo Mas­simo il 23 marzo 2002, fatta dalla Cgil di Ser­gio Cof­fe­rati, senza badare al fatto che l’articolo in que­stione non li riguar­dava. Era una cosa giu­sta, per tutti, era indi­vi­si­bile come la giu­sti­zia. Era un valore per tutti; si doveva impe­dire che fosse can­cel­lato o stravolto.

È ben noto che gli avver­sari dell’articolo 18, più o meno nello stesso periodo, si erano avvolti nel man­tello della libertà. «La fab­brica è mia e quel certo sin­da­ca­li­sta non lo sop­porto pro­prio. Fa per­fino del sabo­tag­gio» Non erano solo Mar­chionne e i suoi pre­cur­sori a pen­sarla così. Non pochi pen­sa­vano che la libertà di licen­ziare fosse una delle libertà demo­cra­ti­che pre­scritte dfa un qual­che emen­da­mento della Costi­tu­zione del Capi­tale. Il Capi­tale era tirato per i capelli in que­sta discus­sione. Si argo­men­tava che nes­suno avrebbe rischiato inve­sti­menti in Ita­lia alla pre­senza di que­sto abo­mi­nio oltre­tutto pro­tetto da un’alleanza ince­stuosa tra giu­dici e ope­rai. Si fecero per­fino dei par­titi poli­tici nuovi – o rivol­tati come una vec­chia giacca – per soste­nere poli­ti­ca­mente que­sti valori.

I testi che pub­bli­chiamo in que­sto spe­ciale met­tono però in luce lo scarto tra pen­siero eco­no­mico e ideo­lo­gia padro­nale. Per mostrare buona volontà l’estrema sini­stra di cui essi si ser­vono è John May­nard Key­nes, lasciando da parte altri autori più riso­luti che forse avreb­bero cau­sato qual­che tem­pe­sta ideologica.

Altre leggi hanno modi­fi­cato la legge 300 che a sua volta (in par­ti­co­lare l’articolo 18) era il com­ple­ta­mento della legge 604 del 16 luglio 1966. I lavo­ra­tori dipen­denti con con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato si sono nel frat­tempo ridotti di numero e in una vera trat­ta­tiva sin­da­cale sarebbe stato pos­si­bile tro­vare un com­pro­messo accet­ta­bile tra egua­glianza e libertà, tenendo conto del valore sim­bo­lico e del rap­porto di forze. Forse si sarebbe potuto seguire una via dif­fi­cile e ope­rosa: prima discu­tere di tutto il resto e poi della even­tuale riscrit­tura di que­sto o di quell’articolo di legge. Ecco però che viene di nuovo fatto sal­tare tutto. Una parte della Con­fin­du­stria, spal­leg­giata da per­so­naggi della poli­tica e dell’accademia, con nomi che è inu­tile o dan­noso ripe­tere, vuole stra­vin­cere, vuole l’umiliazione di chi la pensa diver­sa­mente, di chi crede dav­vero che gli uomini siano uguali tra loro.

Mat­teo Renzi, pover’uomo, man­cando di un’idea per­so­nale, si accoda. Ripete quello che gli hanno detto. Attacca i soste­ni­tori dell’art.18 come fau­tori dell’apar­theid tra lavo­ra­tori di serie A e di serie B. Si fa rispon­dere da Ste­fano Fas­sina che, senza difese sin­da­cali e poli­ti­che, fini­ranno tutti in serie C.

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