“Amore mio, non morire ti porterò in Italia con me” le lettere mai spedite dei migranti sepolti in mare
POZZALLO . «Mio adorato amore, per favore non morire, io ce l’ho quasi fatta. Dopo mesi e giorni di viaggio sono arrivato in Libia. Domani mi imbarco per l’Italia. Che Allah mi protegga. Quello che ho fatto, l’ho fatto per sopravvivere. Se mi salverò, ti prometto che farò tutto quello che mi è possibile per trovare un lavoro e farti venire in Europa da me. Se leggerai questa lettera, io sarò salvo e noi avremo un futuro. Ti amo, tuo per sempre Samir». Questa è una lettera che non è mai arrivata a destinazione, una delle tante. Si conosce solo il mittente, “Samir”, probabilmente egiziano, età apparente 20-25 anni. È la lettera di un morto, uno dei tanti cadaveri giunti nei barconi a Pozzallo o ripescati da mercantili in navigazione e dalle navi della nostra Marina militare dell’operazione Mare Nostrum, che nel Canale di Sicilia da mesi raccolgono vivi e morti.
Quella di Samir è una delle tante lettere d’amore e di speranza inviate dagli uomini in fuga dal Sud del mondo alle mogli e fidanzate che hanno in Ghana, Nigeria, Egitto, Palestina, Etiopia, Eritrea. Lettere che non sono mai state spedite e che sono state trovate nelle loro tasche, molte chiuse in buste di plastica per non farle distruggere dal mare e che portavano addosso come reliquie. Spesso le reliquie sono diventati inutili testamenti. «Troviamo di tutto in quelle tasche e nelle buste di plastica che portano attorno al collo», racconta uno dei poliziotti della squadra mobile di Ragusa da mesi impegnato a Pozzallo, «fotografie dei figli, delle mogli, dei genitori. Non sono utili alle indagini, ma quando le traducono ti fanno venire un groppo in gola». Sono lettere scritte in arabo, francese e inglese, come quella di “George”, probabilmente di origine liberiana, che avrebbe scritto alla sua amata quando dal porto di Zuhara salì su uno dei barconi salpato verso le coste di Lampedusa: «Amore mio, finalmente sono arrivato. La vita comincia adesso, spero di tornare presto per portarti con me e vivere insieme lontani dalla guerra. Ti Amo».
Fotogrammi di una tragedia senza fine che si consuma ogni giorno nelle acque internazionali, tra la costa libica e quella siciliana. Spesso, consapevoli di non arrivare vivi alla destinazione sperata, i fuggitivi copiano queste lettere e le consegnano ad altri compagni di viaggio nella speranza che possano sopravvivere e inviare notizie ai loro congiunti. Su un pacchetto di sigarette trovato nelle tasche di uno dei tanti cadaveri ormai sepolti senza nome in uno dei tanti cimiteri sparsi tra le province di Ragusa e Agrigento e ritrovato da un collega del New York Times, c’era una brevissima lettera scritta a mano in dialetto tigrino, una delle lingue eritree. C’era scritto: «Volevo essere con te. Non osare dimenticarmi. Ti Amo tantissimo, il mio desiderio è che tu non mi dimentichi mai. Stai bene amore mio. A ama R». Era una lettera indirizzata ad una ragazza il cui nome cominciava per “A” e scritta da “R”. Mai arrivata a destinazione, ormai parte degli archivi dei fantasmi del mare. Racconta il poliziotto di Ragusa: «In alcuni fogli si leggono racconti della prigionia nelle carceri libiche, in attesa del trasferimento sui barconi che li avrebbero dovuti portare, vivi, in Italia». Lettere scritte alle madri dove ragazzi raccontavano la loro odissea, la traversata nel deserto, il pizzo pagato a ogni frontiera e il saldo ai trafficanti, i biglietti numerati presi per salire a bordo delle carrette che non si sa mai se arriveranno a destinazione.
L’archivio della speranza e della morte è lunghissimo. Nelle tasche dei molti morti e di alcuni sopravvissuti marinai e poliziotti hanno trovato le foto delle loro ragazze e dei figli lasciati in Eritrea, le fotocopie dei documenti d’identità dei loro bambini nella speranza che, un giorno o l’altro, anche loro li avrebbero raggiunti.
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