Troppe esportazioni e pochi consumi interni l’autogol di Berlino che gela Eurolandia

by redazione | 15 Agosto 2014 10:13

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ROMA . Il grande freddo è arrivato. Prima, la gelata dei prezzi: i dati dicono che troppi Paesi dell’eurozona sono ormai apertamente in deflazione. Unita all’inflazione troppo bassa negli altri, la gelata ha finito per avviluppare l’economia, mettendo in frigorifero anche la potente locomotiva tedesca e proiettando sui prossimi mesi il rischio non del ristagno, ma della recessione. Per ora, quello di cui tutti sono sicuri è che non si arriva alla luce in fondo al tunnel, se la locomotiva tedesca non riparte. In qualche modo, i dati fanno giustizia dell’ottimismo, sparso a piene mani nelle ultime settimane, anche da Mario Draghi che, nei giorni scorsi, aveva parlato di ripresa europea «fragile, ma ancora in traiettoria» e di prezzi destinati a scuotersi dall’immobilismo. Gli osservatori ne possono trarre due lezioni. La prima è che è illusorio fidarsi di indicatori, come i sondaggi sugli orientamenti di chi, nelle aziende, fa gli acquisti (i “purchasing managers’index”) che avevano alimentato quell’ottimismo. La seconda è che anche modelli econometrici più sofisticati e complessi — compreso quello della Bce — hanno urgente bisogno di revisione e manutenzione, perchè da anni, ormai, sbagliano per eccesso, pronosticando una ripresa che non arriva.
Un rallentamento dell’economia tedesca che, in questi anni, ha trainato, con la sua formidabile macchina da export, tutta l’Europa, era atteso. Ma è arrivato troppo presto ed è questo che fa suonare più forte l’allarme. Si sapeva che la crisi ucraina e le sanzioni alla Russia avrebbero preteso un pedaggio sull’industria tedesca, ricca di affari con Mosca. Il problema è che l’impatto era atteso ora, nel terzo trimestre, e avremmo dovuto registrarlo a ottobre. Invece, l’economia tedesca si era fermata già fra aprile e giugno, prima delle misure anti-Putin. Segno che gli ostacoli, per l’industria tedesca, sono diversi e più grossi delle sanzioni. Ma segno, soprattutto, che i dati di ottobre, sanzioni incluse, potrebbero essere peggiori di quelli usciti ieri.
C’è poco di misterioso nella frenata di un’economia, come quella tedesca, che gioca quasi tutte le sue carte sulle esportazioni. La congiuntura mondiale si va rivelando asfittica. Gli Usa hanno un andamento a singhiozzo, ma il Giappone ha appena registrato una brusca frenata e anche in Cina il ritmo si è, di colpo, quietato: il credito alle imprese sta registrando gli incrementi più bassi degli ultimi sei anni. Contemporaneamente,
i due più importanti clienti europei della Germania sono svaniti: la Francia è a sviluppo zero e l’Italia con il segno meno. Semplicemente, le aziende tedesche non sanno a chi vendere. O, meglio, un candidato c’è, ma, finora, il governo Merkel lo ha accuratamente evitato: il mercato interno.
Da tempo, il Fondo monetario, la Casa Bianca e anche molti governi europei chiedono alla Germania una decisa svolta espansiva. Un mercato interno più vibrante significa esportazioni più facili per gli altri Paesi europei in
difficoltà e un’accelerata dei prezzi tedeschi favorirebbe anche un recupero di competitività degli stessi Paesi, senza costringerli a cercarla solo nel taglio di salari, occupazione e nella spirale dell’austerità. Al contrario, i dati sulle vendite al dettaglio in Germania sono tutt’altro che rosei e, nonostante gli incoraggiamenti verbali che arrivano sia dalla Bundesbank che dal governo sugli aumenti salariali, Berlino non sembra puntare con sufficiente decisione su un rilancio dei consumi. Soprattutto, sembra non voler cogliere l’occasione offerta dalla corsa, nazionale e internazionale, al Bund come bene rifugio. I tassi di interesse sui titoli pubblici tedeschi sono a minimi record, in qualche caso — a 2 o tre anni — finanche negativi. E’ la spia delle storture che oggi affliggono i mercati finanziari europei, ma nell’immediato presentano al governo tedesco l’opportunità di finanziare — a prezzi stracciati — quello che molti economisti, anche tedeschi, raccomandano come urgente e indispensabile: un massiccio programma di investimenti pubblici che ammoderni e rilanci le infrastrutture, nel campo dell’educazione, delle strade, dell’energia. Naturalmente, per farlo, il governo tedesco dovrebbe liberarsi dall’ossessione del pareggio di bilancio e del prosciugamento del debito che impone, oltre che ai partner europei, anche a se stesso. Insomma, liberarsi della trappola dell’austerità subito e a ogni costo.
Le prime reazioni, a Berlino, a questa improvviso stop dell’economia sono, comunque, per ora assai poco allarmistiche. L’ufficio studi della Deutsche Bank prevede un rallentamento del ritmo di crescita dell’industria nel 2014, in alcuni settori anche assai marcato, ma si affretta a definirlo un «inciampo temporaneo». Se, tuttavia, la frenata di primavera dovesse confermarsi anche in estate e in autunno, la classe dirigente tedesca potrebbe essere costretta a rivedere le scelte cui si è attenuta in questi anni. Gli effetti sul dibattito europeo a proposito di flessibilità e austerità sarebbero massicci e questo è un elemento che può frenare le riflessioni di Berlino. I tedeschi temono, infatti, che un allentamento del loro rigore interno possa fornire il segnale sbagliato ai partner europei, una sorta di “tana libera tutti”.
In realtà, fra la dinamica tedesca e quella italiana, le distanze restano enormi. E il dato tedesco sul Pil è molto diverso dal dato italiano sul Pil, anche se il numero è lo stesso. La Germania sperimenta, oggi, una battuta d’arresto, in larga parte determinata da fattori internazionali e, probabilmente, temporanea. L’Italia attraversa una crisi che si prolunga, ormai, da vent’anni, è entrata, in questi mesi, nella terza recessione nel giro di cinque anni e denuncia il definitivo tramonto del modello di sviluppo su cui si è fondata la modernizzazione del paese. Uno stimolo all’export, proveniente dal mercato tedesco, non inciderebbe sui problemi di fondo, strutturali — la burocrazia, il dualismo del mercato del lavoro, la cultura degli imprenditori — che ingessano lo sviluppo del paese. Le riforme attese e promesse, tuttavia, sono indispensabili per il futuro del paese, ma non danno risultati immediati. E, comunque, non esauriscono il problema. Uno studio appena pubblicato da lavoce. info mostra che il tracciato dell’economia italiana e di quella finlandese (spesso portata ad esempio di vivacità e modernità) sono, negli ultimi tre anni, paralleli, quasi a dimostrare il peso di una congiuntura e di condizioni internazionali. Le riforme sono cruciali, ma l’Europa — Germania in testa — può dare una mano.

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