Il tramonto di Palazzo Madama
PER più versi la fine del Senato che abbiamo conosciuto può sancire l’epilogo di una seconda Repubblica mai nata. Può diventarne in qualche modo un simbolo, ma può permettere al tempo stesso una riflessione di più lungo periodo.
ALLA caduta del fascismo e della monarchia, infatti, il suo delinearsi nella Carta Costituzionale non fu solo un segnale di rottura rispetto al passato: fu al tempo stesso il frutto delle ansie e delle speranze, ma anche delle incertezze e delle inquietudini che avvolgevano l’alba della Repubblica. Una rottura rispetto al passato, perchè la scomparsa del Senato di nomina regia simboleggiava la fine dello Statuto albertino e di quel che esso aveva significato nella storia dell’Italia Unita. Al tempo stesso però quella scelta istituzionale aveva profonde radici e ragioni nel clima del tempo: al bicameralismo perfetto – cioè a un Senato e a una Camera con le stesse funzioni – si giunse anche per la grandissima incertezza che attraversava un Paese uscito da vent’anni di fascismo e deciso a precludersi pericolose derive. Molto attento quindi a metter in campo contrappesi, organi di garanzia, spazi di “ripensamento”. Un Paese, anche, che stava entrando nella fase più tesa della guerra fredda ed era segnato al tempo stesso dalla grande incertezza delle prime consultazioni elettorali: in quel clima il monocameralismo era temuto da Alcide De Gasperi, e non solo da lui, come il possibile annuncio di un “governo dell’assemblea” giacobino e nefasto. Prevalse dunque il bicameralismo perfetto, pur con quelle marginali differenze rispetto all’altra Camera che segnalavano più incertezze che visioni definite. L’età maggiore richiesta per l’elettorato attivo e passivo si univa all’istituto dei senatori a vita nel delineare – e sia pur debolmente – un Senato di riflessione, mentre la sua elezione “a base regionale” era un pallido riflesso di ipotesi più esplicite in questo senso. A sottolinearne il valore di contrappeso e ad evocare una diversità vi era poi la maggior durata inizialmente prevista, sei anni contro i cinque della Camera. Differenza mai concretizzata: inizialmente esso fu anticipatamente sciolto in coincidenza con
la fine del mandato della Camera, e poi venne la modifica costituzionale.
È naturalmente impossibile ripercorrere qui una intera storia, basti ricordare almeno i Presidenti del Senato di maggior durata e di maggior valore simbolico della “prima Repubblica”: al di là di ogni giudizio di merito evocano da sé un alto profilo e al tempo stesso le tensioni, le speranze e i drammi, le grandi questioni e i nodi irrisolti di mezzo secolo. Dal 1953 al 1967 a presiedere l’aula di Palazzo Madama fu infatti un solido conservatore come Cesare Merzagora, nella cui densa biografia troviamo anche la Presidenza della Commissione economica del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia o il ruolo di Presidente supplente della Repubblica. Lo ricoprì nella seconda parte del 1964 per la malattia che colpì allora Antonio Segni all’indomani delle cupe giornate del Piano Solo (e del “tintinnar di sciabole” che Nenni vi intese). Si pensi anche ad Amintore Fanfani, che presiedette Palazzo Madama a più riprese: dal 1968 al 1973, dal 1976 al 1982 e dal 1985 al 1987. In un volger d’anni decisivo, insomma, che vide forti speranze e al tempo stesso l’inizio del declino della prima Repubblica: negli anni settanta Giuliano Amato ha visto “la maturità che non sapemmo avere” mentre gli anni ottanta ci appaiono oggi per più versi l’incubazione dell’era berlusconiana. Va aggiunto che nello scorrer dei decenni il Senato non sembrò svolgere il previsto ruolo di “ripensamento” e iniziò ad esser sottolineato criticamente, invece, il rallentamento istituzionale che esso induceva. Una riduzione del suo ruolo – oltre che del numero di deputati e senatori – fu prevista già negli anni ottanta dalla Commissione Bozzi ma ancor prima Umberto Terracini in un appassionato libro-intervista su Come nacque la Costituzione aveva proposto con decisione di abolirlo per favorire uno snellimento istituzionale sempre più necessario.
Dibattiti di alto profilo, comunque li si giudichi, che tendono a scomparire nella seconda Repubblica. Fin proprio dall’inizio: il primo governo Berlusconi sulla carta non ha la maggioranza in quell’aula ma la ottiene grazie alla diplomatica assenza di quattro senatori del Partito Popolare (uno di essi passa subito a Forza Italia e viene immediatamente nominato sottosegretario alla Presidenza del consiglio: precoce annuncio dell’era degli Scilipoti). Viene eletto allora Presidente del Senato Carlo Scognamiglio che batte Giovanni Spadolini per un solo, contestato voto. Si comincia male e si continua peggio. Il Senato sale infatti alle cronache anche per le modifiche introdotte dal Porcellum e per i voti comprati che affossano il secondo governo Prodi, esplicitamente ammessi poi dal senatore Sergio De Gregorio (transfuga precoce: all’indomani della sua elezione era stato nominato Presidente della Commissione Difesa grazie ai voti del centrodestra e contro l’indicazione del centrosinistra). Si giunge poi all’apice del degrado con la mortadella ingurgitata da un senatore di Alleanza Nazionale per festeggiare appunto la caduta di Prodi (propiziata anche dal senatore ultracomunista Turigliatto). Per non parlare dell’elogio della Rivoluzione d’ottobre fatto risuonare in precedenza in quell’aula da un senatore di Rifondazione o, su opposto versante, dell’ondivago procedere del senatore Pallaro, eletto dal centrosinistra ma anch’egli confluente nell’affossarlo. Sic transit gloria mundi. E anche, purtroppo, l’autorevolezza dell’aula che era stata la più prestigiosa.
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