Tante scuse e nessuna giustizia per i civili afghani uccisi dagli americani

by redazione | 13 Agosto 2014 10:57

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In Afgha­ni­stan non c’è giu­sti­zia per le vit­time civili. Si può essere uccisi in casa pro­pria, da sol­dati stra­nieri, si pos­sono veder morire figli, mogli, fra­telli o sorelle, non riu­scire a capirne il per­ché, rima­nendo in attesa di una giu­sti­zia che non verrà.

Il rap­porto reso pub­blico due giorni fa da Amne­sty Inter­na­tio­nal — Left in the Dark: Fai­lu­res of Accoun­ta­bi­lity for Civi­lian Casual­ties Cau­sed by Inter­na­tio­nal Mili­tary Ope­ra­tions in Afgha­ni­stan — denun­cia con epi­sodi spe­ci­fici e docu­men­tati l’impossibilità per i parenti delle vit­time civili di otte­nere giu­sti­zia. Sono migliaia gli afghani non com­bat­tenti uccisi dalle forze inter­na­zio­nali dal 2001 in poi, ma nella mag­gior parte dei casi – recita il rap­porto – anche quando ci sono prove evi­denti di una con­dotta irre­go­lare, i parenti delle vit­time non hanno alcun mezzo per riven­di­care giu­sti­zia. Tan­to­meno per ottenerla.

Lo stu­dio redatto dai ricer­ca­tori di Amne­sty Inter­na­tio­nal si base su una serie di inter­vi­ste rac­colte nel luglio 2013 e nel marzo 2014 e si con­cen­tra sul quin­quen­nio 2009–2013: in que­sti 5 anni sareb­bero sol­tanto 6 i pro­cessi aperti nei con­fronti di sol­dati stra­nieri per l’uccisione di afghani inno­centi, a cui vanno aggiunti 10 impu­tati già con­dan­nati, tra i quali il fami­ge­rato ser­gente Robert Bales, con­dan­nato all’ergastolo lo scorso ago­sto per aver ucciso a san­gue freddo nel marzo dell’anno pre­ce­dente nella pro­vin­cia di Kan­da­har 16 civili, tra cui 9 bam­bini, lasciando die­tro di sé una serie di cada­veri bruciati.

Sono 10 i casi-studio ana­liz­zati in det­ta­glio nel rap­porto. Dieci casi che rac­con­tano le sto­rie di 150 civili uccisi in varie pro­vince, soprat­tutto in quelle orien­tali come Nan­ga­rhar, Kunar, Lagh­man. Pro­prio nella pro­vin­cia di Lagh­man il 16 set­tem­bre 2012 è avve­nuto uno degli epi­sodi più tra­gi­ca­mente insen­sati: alcune gio­vani donne si erano riu­nite, intorno a mez­za­notte, per rac­co­gliere legna da fuoco. Alle 3 del mat­tino degli aerei ame­ri­cani hanno sgan­ciato una serie di bombe sul gruppo di donne, ucci­den­done 7, come rac­conta ai ricer­ca­tori di Amne­sty Inter­na­tio­nal una delle soprav­vis­sute, la 17enne Aqel Bibi. Il seguito è una sto­ria che si ripete: i parenti delle vit­time che si rivol­gono ai lea­der locali, i quali denun­ciano l’episodio al gover­na­tore pro­vin­ciale, il quale a sua volta inter­pella gli ame­ri­cani. Gli stra­nieri che prima negano, soste­nendo di aver col­pito un gruppo di «insorti» e poi, sotto pres­sione, ammet­tono «l’incidente» e si scu­sano pub­bli­ca­mente. I parenti che, oltre alle scuse, chie­dono l’avvio di un’indagine e un pro­cesso vero e pro­prio che non pren­derà mai piede.

Aspet­tano un pro­cesso che non ci sarà anche i parenti dei 5 ragazzi inno­centi uccisi il 4 otto­bre 2013 da due eli­cot­teri ame­ri­cani nel distretto di Beshud, nella pro­vin­cia di Nan­ga­rhar: prima dei ricer­ca­tori di Amne­sty, solo il mani­fe­sto aveva rico­struito la loro sto­ria (17 otto­bre 2013), rac­co­gliendo la voce dei parenti che, dis­sero in quei giorni a chi scrive di voler «vedere i sol­dati stra­nieri sotto pro­cesso» in Afgha­ni­stan. Quel pro­cesso non si terrà mai, per­ché i sol­dati ame­ri­cani sono immuni rispetto alla legge afgana. Così sta­bi­li­sce il Sofa, lo Sta­tus of For­ces Agree­ment fir­mato nel 2003 dall’allora mini­stro degli Esteri afghano Abdul­lah Abdul­lah, ora can­di­dato alla pre­si­denza insieme ad Ash­raf Ghani.

L’accordo sta­bi­li­sce che, in caso di abusi com­piuti sul ter­ri­to­rio dell’Afghanistan, i sol­dati a stelle e stri­sce rispon­dano alle pro­prie leggi, non a quelle locali. E come denun­cia il rap­porto Left in the Dark, oltre «alle rile­vanti falle strut­tu­rali nel sistema della giu­sti­zia mili­tare degli Stati Uniti», rimane il fatto che siano gli stessi mili­tari e non altri a giu­di­care ciò che merita un pro­cesso, un’ammenda ammi­ni­stra­tiva, o l’oblio, come nella mag­gior parte dei casi. L’oblio con­tro cui lot­tano i parenti delle vit­time afghane

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