Il super banchiere e la deflazione

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NELLE otto conferenze stampa che ha tenuto dall’inizio dell’anno, Mario Draghi ha sempre parlato della ripresa in arrivo. Cambiavano giusto gli aggettivi scelti dal presidente della Bce per descriverla. Da gennaio a marzo era «lenta». Ad aprile questa sfumatura di cautela è caduta, quasi che le nubi si stessero sollevando. A giugno però la ripresa è diventata di colpo «un po’ più debole del previsto» e a inizio agosto «moderata e diseguale». Poi a metà agosto l’Europa ha capito che la ripresa semplicemente non esisteva: crescita zero. Sarebbe facile ora rimarcare che nell’ultimo anno e mezzo lo staff della Banca centrale europea ha regolarmente sbagliato i suoi calcoli. Ha sempre previsto una crescita superiore a ciò che poi è successo e non ha mai messo in conto che l’intera zona euro si sarebbe trovata sull’orlo della deflazione.
SE QUESTE previsioni erano la base delle scelte, non sorprende che la Bce stia fallendo nel suo compito principale: garantire la stabilità dei prezzi, cioè un’inflazione «vicina ma sotto al 2%» nel medio periodo. Quest’estate i prezzi sono in caduta in Spagna, Portogallo, Grecia e di fatto anche in Italia, mentre nella media dell’area l’inflazione (in frenata) è ad appena lo 0,4%. Angel Ubide dal Peterson Institute nota che i mercati non credono affatto che i prezzi ripartiranno: i valori impliciti nei tassi forward — stime di mercato sul futuro — danno un ritorno alla normalità non prima di un decennio.
Le conseguenze sono note. Famiglie e imprese rinviano consumi e investimenti in attesa di prezzi ancora più bassi domani. L’economia ristagna più a lungo. E poiché con un’inflazione a zero il peso reale dei debiti aumenta, l’intera contabilità di famiglie, imprese e governi in Europa sta già cambiando in peggio. Oggi circolano obbligazioni emesse in euro da europei per 13.300 miliardi (quasi un terzo del Pil del mondo), di cui 7.300 miliardi a carico degli Stati dell’area. Tutti coloro che si sono sobbarcati dei debiti in questi anni, lo hanno fatto nell’idea che la Bce avrebbe rispettato il proprio impegno a difendere un’inflazione attorno al 2%. Non a quota zero. Ora quell’impegno viene meno e rende la gestione di tutti i debiti molto più pesante: gli interessi restano uguali, i ricavi per pagarli scendono. Lo stesso Fiscal Compact diventa più difficile da rispettare e meno credibile, quasi nato morto.
Sarebbe facile notare adesso questi errori della Bce, non fosse che nessuno si illude che una banca centrale possa sempre evitarli. Non succede mai. Dall’inizio di questa crisi la storia dell’Eurotower è piena di errori commessi e poi corretti. Soprattutto è piena di errori della Bundesbank e delle persone espresse dalla banca centrale tedesca nell’Eurotower, sempre convinte che creare moneta e allargare il bilancio della Bce avrebbe creato troppa inflazione. Non è mai andata così: al suo massimo il bilancio dell’Eurotower è quadruplicato, eppure l’inflazione è scesa. Nel 2007 Jürgen Stark, tedesco nell’esecutivo Bce, si lamentò quando la banca lanciò le prime iniezioni di liquidità con la crisi dei subprime; la storia ha dimostrato che si sbagliava. Nel 2010 e nel 2011 lo stesso Stark e Axel Weber, allora presidente della Bundesbank, votarono contro gli acquisti di titoli di Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna, furono messi in minoranza e anche questa volta la storia ha dato loro torto. Lo stesso vale per Jens Weidmann, successore di Weber alla Buba, quando nel 2012 si oppose alla svolta con cui Draghi promise sostegno illimitato ai Paesi che avessero accettato un programma di riforme. Quella promessa non costò un euro, salvò l’Italia e la moneta unica e dimostrò che la Buba si sbagliava e andava messa in minoranza.
Se questa storia ha ancora un senso, è perché continua: la banca centrale tedesca si oppone a ciò che serve per scongiurare la deflazione. Come hanno già fatto la Federal Reserve americana, la Banca del Giappone e quella d’Inghilterra, per fare il suo dovere oggi la Bce ha bisogno di creare almeno mille miliardi di euro e comprare a tappeto titoli pubblici e privati dei Paesi dell’area euro. È il cosiddetto “quantitative easing”, inaugurato dalla Fed nel 2009. Avrebbe già dovuto farlo, risparmiando un po’ dei problemi di debito, crollo degli investimenti e stallo dell’export che oggi affliggono l’Italia e altri Paesi. Non è successo perché Draghi non ha voluto muovere un passo del genere contro la Bundesbank.
Il presidente italiano della Bce ha due ottimi argomenti dalla sua. Il primo è che già la sua promessa del 2012 di difendere l’euro a tutti i costi, ricreando fiducia, ha di fatto prodotto un effetto “quantitative easing”: da settembre 2012 a marzo 2014 le banche private estere hanno riportato in Italia 163 miliardi di dollari (dati Bri), eppure il paziente non si riprende. La differenza è che nuovi interventi della Bce svaluterebbero l’euro e darebbero finalmente ossigeno all’export, mentre gli afflussi di denaro privato invece rafforzano il cambio.
Il secondo argomento di Draghi è anche più serio: poiché la Germania è di gran lunga il primo azionista Bce, è difficile imporle il rischio di sobbarcarsi debito italiano per centinaia di miliardi contro la sua volontà. In questo l’Italia può aiutare, cercando di ricostruire una credibilità che in Europa ha perso da un pezzo. Ma per la Bce combattare la deflazione è un dovere. È stata creata apposta: se condizionasse le sue scelte in proposito a quelle dei governi, di fatto rinuncerebbe all’indipendenza.
Ormai Draghi è davanti a un bivio, forse il più difficile della lunga carriera di successi. Può fargli comodo un consiglio contenuto nelle memorie di un suo vecchio amico, l’ex segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner: meglio prendersi la colpa dei propri errori, che di quelli degli altri. Inclusa, al solito, la Bundesbank.



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