Il sindacato impopolare

Il sindacato impopolare

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Sulla velocità e i giochi di parole tra Susanna Camusso e Matteo Renzi non c’è gara. Così al segretario della Cgil che per sottolineare l’estrema gravità dei problemi sul tappeto aveva riproposto/minacciato l’ennesimo e frusto autunno caldo, il premier ha avuto buon gioco a replicare in chiave meramente meteorologica: «Facciano loro, già l’estate non è stata un granché». Tra governi e sindacati, dunque, si è consumata anche la fase dell’incomunicabilità e siamo arrivati alla stagione dello sberleffo. Del resto Renzi proprio sulla contrapposizione alla Cgil ha costruito parte del successo elettorale al Nord ed è quindi convinto che insistendo non gliene possano venire che consensi. Perché la verità — se volete amara — è proprio questa: i sindacati non sono popolari. Potrà sembrare una contraddizione in termini, un ossimoro, invece è proprio così. Basta chiedere a qualsiasi sondaggista che monitori con continuità gli orientamenti degli italiani.
Il motivo è semplice, i nostri leader sindacali hanno perso «il senso della realtà», restano abbarbicati a un potere di interdizione che scema sempre di più e sono schiavi della coazione a ripetere. L’autunno caldo come eterno riflesso condizionato. Gli scioperi dei trasporti pubblici sempre di venerdì. E poi il no alle aperture domenicali dei supermercati, valigia selvaggia a Fiumicino, blocco dei cancelli a Pompei. Il guaio è che andando di questo passo Cgil-Cisl-Uil si condannano all’irrilevanza. Perché, sia detto con chiarezza, i mesi che ci separano dalla fine dell’anno fanno paura anche a noi: come una buona fetta del Paese siamo convinti che il risanamento italiano non sia ancora veramente incominciato e che il governo non abbia le idee del tutto chiare. Ma quelli che difettano sono il coraggio e le soluzioni, di veti e scioperi inutili ne abbiamo collezionati abbastanza da metter su un museo.
Lo stesso rischio, quello dell’irrilevanza, lo corre per altri versi anche la Confindustria (non parlo di Rete Imprese Italia per pudore). Siamo nel terzo anno di una presidenza, quella di Giorgio Squinzi, che finora non ha lasciato un’impronta indelebile. La struttura di Viale dell’Astronomia ha elaborato di recente due (ottimi) documenti sul credito e sul lavoro ma la loro conoscenza è rimasta circoscritta a un ristretto ambito di aficionados . Sul credito non è iniziato — come ci si sarebbe aspettato — un confronto stringente con le banche, sul lavoro non si è difesa nemmeno l’azione degli Ichino e dei Sacconi e si è lasciato che avessero la meglio i deputati democratici di rito cgil. La Confindustria chiede giustamente una svolta di politica industriale ma si attarda su una parola d’ordine, quella di riportare la manifattura dal 18 al 20%, palesemente irrealistica visto che le nuove imprese non nascono certo nei settori pesanti e il ritorno dalle delocalizzazioni non ha purtroppo quel peso quantitativo.
In definitiva, dopo aver discusso animatamente per mesi del rapporto tra corpi intermedi e politica, ci troviamo a fare i conti con la loro assoluta irrilevanza. L’associazionismo avrebbe bisogno di un bagno di realtà e di leadership lungimiranti e invece minaccia o traccheggia. So che molti considerano il loro declino come un bene, tutto sommato, personalmente invece continuo a vederla come una distruzione di valore.


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