Il sentiero di stelle che mi portò a scoprire lo Scorpione

Il sentiero di stelle che mi portò a scoprire lo Scorpione

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IL LAMPO azzurro del monile mi folgorò alle 02.35 precise. Lo so perché guardai l’orologio. Mi ero svegliato come sempre alle ore piccole e ascoltavo le voci della notte: litigare di gabbiani, sciacquio sotto le finestre. C’era una strana calma di vento. Preparai un tè e feci per rimettermi a letto quando vidi, con la coda dell’occhio, quella luce nel vuoto, oltre il davanzale. Guardai meglio. La notte era popolata di fanali! Enormi, aureolati, pulsanti. Come se il Ciclope avesse svegliato un esercito di fari fratelli.
Spalancai la finestra e rimasi a bocca aperta. Il versante Sud era tempestato di stelle, le nubi era sparite. Ma erano stelle nuove, non ne riconoscevo nessuna. Mi sembrava impossibile che a portarmi in un cielo straniero fosse bastato un niente: l’orizzonte tutto libero e una latitudine nemmeno troppo diversa, per non parlare del buio da luna nuova, dell’assenza di inquinamento luminoso, della stagione insolita e della mia straordinaria altezza sul mare. Anche la stella che mi aveva folgorato apparteneva a una costellazione nuova. Qualcuno l’aveva inchiodata alla sommità di un monile che pendeva sull’orizzonte marino e aveva in alto a destra un semicerchio di stelle simile a un orecchio.
Mi buttai una coperta sulle spalle, presi un quaderno e uscii di corsa. Ansavo per l’eccitazione. Davanti alla porta, sul lato Nord, il cielo splendeva di diademi. Volevo riprodurli per poi cavarne il nome dal planetario tascabile che mi ero portato da casa. Ma non sapevo da dove cominciare. Il cielo era sconfinato. Avevo fretta, sentivo che quella straordinaria finestra sul cosmo era unica e irripetibile. Il cielo poteva richiudersi, e difatti una striscia diafana sembrava già avvicinarsi da Est. Ma riluceva anche quella! Dunque era lei, era la Via Lattea col suo sentiero di stelle. Era il cielo sereno che certificava la mia perdita di dimestichezza con la notte.
Il Nord, almeno, mi fu più familiare. Riconobbi il Grande Carro quasi allo zenit, tagliai in diagonale sulla Polare, poi scesi sulla “emme” rovesciata di Cassiopea, un po’ sopra l’orizzonte. Leggermente più in basso, a ore undici e ore due, individuai il pulsare intermittente di due fari. Cercai di fissare qualcosa su carta, ma fu un tormento. Dovevo accendere la torcia e questa mi accecava al punto che poi mi ci volevano ventitrenta secondi per rivedere nella sua interezza la magia della notte. Qualcuno mi aveva detto che per abituare al buio il nostro occhio ferito da troppe luci ci vogliono almeno sei ore. In Africa, ricordai, mi ci erano voluti giorni per imparare a camminare nel buio della savana.
Tornai sul lato Sud, che è quello che riserva sempre più sorprese. Allineata sul filo dei paralleli, l’isola
era un ottimo planetario, e lo stesso casermone del faro era un osservatorio come si deve perché costruito sui punti cardinali. Il pennello della lanterna, roteando, sembrava impartisse la sua pastorale benedizione al Nord, all’Est, al Sud e all’Ovest. Vedevo senza ostacoli l’interezza dell’orizzonte celeste, sotto il quale pulsavano miliardi di stelle australi. Guardai bene: perse in uno spolverio di luci minori, tre fiaccole ardevano tra l’Orsa Maior e il Monile. Una era certamente Giove, pianeta di luce gialla e ferma. Le altre due le riconobbi a fatica, scavando nella memoria. Vega, in alto. Arturo, più in basso. Sull’orizzonte marino, anche lì, qualche luce terrestre. Un faro, un paese. Il Continente!
Strepitoso: la notte mi svelava la terraferma e gli arcipelaghi che il giorno non era riuscito a mostrarmi. Vedevo l’Europa, la grande madre. I suoi promontori lontani. Ma cos’era la mia stella azzurra? Che nome aveva quello sfolgorante pendaglio? Cercai nel planetario tascabile, una pila di dischetti di cartone ciascuno con un pezzo di cielo, ma le istruzioni erano banali e spoetizzanti. “Dato che… A partire da… È pertanto consigliabile”. No, io non volevo quello. Cercavo una narrazione, mi mancava un mago Merlino che pronunciasse forte quei nomi, li evocasse per svelarne l’essenza e me li indicasse col lungo dito ossuto sulla mappa del firmamento.
Le stelle le avevo conosciute davvero a vent’anni, durante la naja. Nei turni di notte alla polveriera, con i cieli puliti della stagione invernale, mi mettevo nelle tasche della mimetica ogni genere di conforto, persino una bottiglietta di rum. E sempre, ripeto sempre, una strepitosa carta Hallwagg delle stelle. Quando salivo sull’altana col fucile Garand per sorvegliare il passaggio delle volpi, accendevo la lampadina frontale, aprivo la mappa e mi perdevo in un labirinto di nomi arabi — Deneb, Algenib, Altair — profumati di distanze, deserti e carovane.
La notte del Diadema era all’apogeo e volli perdermi in essa. Abbandonai il faro, scesi lungo il sentiero fino a raggiungere il centro dell’isola. Non c’era bisogno di torce elettriche: bastavano le stelle, anche senza Luna. Arrivai al posto che fin dal primo giorno mi era stato indicato come “Lucertola”, o “Salamandra”. Lì c’era una spianata con le tracce appena visibili di un’antica cappella dedicata a San Michele, e un insediamento neolitico. Il posto mi sembrò perfetto. La mia costellazione stava per essere inghiottita dall’orizzonte terrestre e proprio allora mi accorsi che il pendaglio non era un pendaglio ma una coda. Era così ovvio. Stavo in faccia allo Scorpione. Era stata la lucertola a chiamarlo.
C’ero arrivato senza bisogno di manuali. Era bastato il buio a ridare un nome alle cose e risvegliare la memoria. Il segno zodiacale scendeva, e con lui la stella più luminosa, che — ricordai — aveva nome Antares. Tornai al faro con la certezza che qualcosa si fosse rimesso a posto anche in me. Mi feci due fette di pane caldo col miele, poi misi un altro tè a bollire, ma decisi che la scoperta meritava un bicchiere di vino bianco. Alle quattro del mattino brindai. E quando il cielo si richiuse nelle nubi cancellando i suoi diademi mi chiesi se e quando avrei più rivisto lo Scorpione.
( continua)


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Paolo Rumizplanetario

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