by redazione | 28 Agosto 2014 19:25
Sono convinta che le politiche dell’istruzione non possano essere slegate da un progetto di sviluppo economico, culturale e civile complessivo del paese, da una riflessione sui modelli culturali, sulle forme odierne di produzione e diffusione del sapere, sulla necessità di introdurre nella scuola sapere tecnologico — che è riflessione pratica e teorica sugli strumenti tecnologici, esplorazione di un modello possibile di conoscenza -, sul fatto che la scuola debba diventare sempre di più una finestra aperta sul mondo (del lavoro e non solo).
Insomma che esse debbano fondarsi su una idea di società e su un’idea di futuro, proprio perché una riforma del «sistema scuola» produce i suoi effetti in tempi lunghi. Altrimenti ci si affiderà di volta in volta alla trovata proposta come geniale e salvifica, che poi risulterà insieme pretenziosa quanto inefficace, semplicemente inutile: dai tablet, al registro elettronico, (e la banda larga?), alle ridicole «tre i», alle preoccupanti recenti proposte di riduzione dell’ultimo anno delle superiori (senza alcuna motivazione culturale e didattica).
In questi ultimi anni la scuola, e in qualche modo anche l’università, hanno sofferto di disattenzione sociale e culturale. E se il «sistema scuola» ha retto, nonostante tutto, lo si deve a quel popolo affaticato ma indomito di insegnanti, studenti, dirigenti, che continua a lavorare con passione, insomma a «crederci» , nonostante il vuoto pneumatico che lo circonda.
Perciò tremo quando sento parlare di «rivoluzioni» in arrivo e mi auguro che la ministra Giannini abbia accentuato, all’ultimo meeting di Rimini, i caratteri neoliberisti della proposta sulla scuola, forse spinta dal genius loci. Perché se tutto si riducesse alla vecchia e ricorrente proposta — chi ricorda Letizia Moratti? — «meritocrazia e apertura ai privati», come titolava ieri l’altro la Repubblica, davvero non avremmo affrontato nessuno dei problemi veri della scuola. E soprattutto verremmo meno a quel dettato costituzionale che affida alla Repubblica il compito di garantire diritti e libertà anche e soprattutto su questo terreno.
Cambiare verso si può. Anzi, si deve. Ecco cosa fare e cosa non fare più. Per chi in classe ci va e per chi è «disperso»
Mi chiedo anche perché in questo paese riforme, o cambiamenti del «sistema scuola» — un mondo che coinvolge circa 10 milioni di persone — devono sempre essere calati dall’alto e con la logica del «vi stupiremo con effetti speciali». Possibile che non si possa fare un’ analisi (che non deve ovviamente durare anni) dei punti di forza e di debolezza del sistema, magari ascoltando i diretti protagonisti — in Francia lo hanno fatto alcuni anni fa — per intervenire con maggiore efficacia?
Nelle anticipazioni giornalistiche di questi giorni alcune cose convincono: l’eliminazione del precariato (penso che vogliano dire questo Giannini e Renzi quando parlano di eliminazione delle supplenze e lasciano intravedere l’inizio della stabilizzazione dei precari) e la creazione di un «organico funzionale», supporto necessario e indispensabile per una vera autonomia scolastica: quella quota di insegnanti che possono fare supplenze o supportare l’attività didattica per rafforzarla o arricchirla. Perché le scuole siano in grado di affrontare insieme il disagio e l’eccellenza. E perché la continuità didattica torni ad essere la regola e non l’eccezione.
Ma questo vuol dire investire seriamente sugli insegnanti, trovare le risorse. Quelle che ad esempio il Ministero dell’Economia ha negato per la vicenda degli insegnanti esodati («quota 96»).
E ancora meglio se questo volesse dire che la stabilizzazione degli insegnanti precari deve avvenire su tutti i posti vacanti e disponibili ( cosa che non è stata fatta negli ultimi anni). È dimostrato tra l’altro che stabilizzare i precari non avrebbe costi molto superiori rispetto al mantenerli precari, licenziandoli e giugno e riassumendoli a settembre.
Ma anche per questo ci vuole un investimento serio e una politica meno contraddittoria e ondivaga come quella degli ultimi anni sia per il reclutamento, (ripristino dei concorsi dopo aver chiuso le scuole di specializzazione e creazione del tirocinio formativo attivo che ne è la brutta copia), sia per la formazione in servizio che, curiosamente, non esiste più da anni in un mestiere che richiede, soprattutto oggi, una formazione e un aggiornamento continui.
Infine, la valutazione. Ben venga se serve a monitorare il sistema, ad indicare i punti di sofferenza e quelli di forza. Ma non se, come spesso capita, viene brandita come un’arma per distinguere i buoni dai cattivi e tentare di introdurre nuove differenziazioni salariali, ma sempre al ribasso. Mi pare vadano in questa logica le ultime proposte sulla carriera degli insegnanti. Vecchio mantra che non risolve il problema della qualità del sistema. Mentre, e anche questo è dimostrato, le scuole che hanno migliori risultati sono quelle in cui funziona la cooperazione e il lavoro collettivo.
È innegabile: il «sistema scuola» in Italia ha bisogno di cambiamenti profondi. E perciò occorre mettere a fondamento di ogni proposta l’idea che l’istruzione non è un costo ma un investimento decisivo e lungimirante. Infine, ogni profonda e seria proposta di cambiamento non può essere fatta a colpi di decreto, ma deve nascere dall’incontro e dal confronto tra tutte quelle risorse e quelle intelligenze che sono patrimonio della scuola italiana, insegnanti e studenti in primo luogo. Negli anni ’90 l’allora ministro Mattarella convocò gli «Stati generali della scuola» e la stessa Moratti tentò qualcosa di analogo prima di presentare la sua riforma.
Metterei da parte l’idea di grandi e piccole ingegnerie istituzionali (anni in più o in meno) a vantaggio di leggi di principio, che garantiscano il carattere nazionale e unitario del sistema, anche alla luce delle norme costituzionali sull’autonomia e ruolo degli enti locali. Riflettendo anche sulla proposta di modifiche al titolo V della Costituzione nella convinzione che, come dice Benedetto Vertecchi ne La scuola disfatta: «L’educazione scolastica costituisce un fattore positivo nella storia dei popoli quando si fonda sul presupposto utopistico che sia possibile realizzare ciò che non è».
Oggi c’è bisogno di più scuola, di più sapere per tutte e tutti. Per navigare e non naufragare in solitudine nel mare di informazioni a cui ognuna e ognuno può accedere. Dobbiamo davvero rassegnarci a pensare che la scuola sia un luogo da attraversare sbrigativamente, un po’ di inglese, un po’ di informatica, l’Università un esamificio. Oppure si tratta di garantire quella coscienza critica e quella capacità di apprendere e di orientarsi nel mondo, e soprattutto di aggiornare le proprie conoscenze nel corso della propria vita, indispensabili per evitare esclusione e marginalizzazione? Non è possibile che si continuino a piangere lacrime di coccodrillo sulla diminuzione delle immatricolazioni all’Università, e non si faccia una riflessione molto ma molto seria sul numero chiuso e sulla necessità di aumentare le risorse per il diritto allo studio.
Perché dobbiamo far crescere il numero dei laureati, non rinchiuderci nel fortino delle «5 migliori università».
E allora dobbiamo davvero «cambiar verso». Perché le politiche scolastiche degli ultimi, ormai decenni, sono state tutte all’insegna della riduzione e del risparmio. Una scuola minima che non ha risorse per tutte e tutti e che finisce con l’essere, come diceva don Milani, un ospedale che cura i sani ed espelle i malati.
Ricominciamo allora a parlare di generalizzazione della scuola dell’infanzia – è in quella fascia di età che si possono superare i gap culturali di partenza tra bambine e bambini ed è estendendo la scuola dell’infanzia statale che si possono garantire uguali diritti a bambine e bambini su tutto il territorio nazionale.
E cerchiamo di riparare i danni che la cosiddetta «riforma Gelmini» ha provocato nella scuola elementare — sempre nella logica del risparmio — scompaginando un modello consolidato, ottimamente valutato nelle classifiche internazionali, quello del team di insegnanti, e lasciando l’organizzazione didattica al caso e alla buona volontà degli insegnanti.
Riprendiamo a parlare di continuità curricolare fra scuola elementare e scuola media, di pari qualità dei percorsi della secondaria. Di interventi per contrastare la dispersione scolastica, anche a partire dalla consapevolezza che i paesi che meglio stanno resistendo alla crisi sono quelli che sul terreno della formazione hanno allargato la platea degli aventi diritto.
Il sapere non è un costo ma un investimento. Il mondo scolastico riguarda oltre 10 milioni di persone
In Puglia, ad esempio, il progetto «Diritti a scuola» realizzato dalla Regione per contrastare la dispersione ha ottenuto ottimi risultati, certificati anche dalle rilevazioni Ocse Pisa. Semplicemente facendo lavorare nella scuola giovani precari in funzione di supporto — circa 6.500 in 4 anni — aumentando il tempo scuola per bambini e ragazzi e impegnando significative risorse. Di misure semplici per garantire momenti di ascolto e di sostegno per studenti e famiglie, come gli sportelli psicologici finanziati da molti enti locali.
Riprendiamo il ragionamento sull’aumento dell’obbligo scolastico fino a diciotto anni, sul nodo della qualità e dell’efficacia dei percorsi di qualifica triennale, sulla creazione di un vero e proprio sistema di formazione degli adulti. Parliamo di un rapporto serio e significativo tra scuola e mondo del lavoro, a partire dalla convinzione che è il sapere a produrre vantaggio economico, sociale e civile e dalla capacità di creare collegamenti e sinergie tra istruzione, formazione e lavoro , anche e soprattutto attraverso incentivi alla ricerca e all’innovazione rivolti alle imprese. Perché chi più innova, più crea lavoro.
E soprattutto eliminiamo il precariato e riconosciamo alle e agli insegnanti il valore della loro funzione. «Pagateli come ministri», scrisse anni fa Natalia Ginsburg su Repubblica.
Per fare tutto questo deve essere compiuta una scelta decisa sulla destinazione delle risorse pubbliche. Mi pare che sulle macerie degli ultimi anni, anche in questo campo, si debba aspirare ad una vera trasformazione, in una linea di decisa discontinuità.
Ci vogliono risorse straordinarie. La scuola è «una grande opera».
* Assessora scuola, università, formazione professionale e diritto allo studio della regione Puglia
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