La rabbia nel Missouri
«In troppe comunità di questo paese esiste una profonda sfiducia tra i residenti e le forze di polizia locale. In troppe comunità giovani uomini di colore vengono lasciati indietro, visti solo come presenze di cui avere paura… è più probabile che finiscano in prigione, o invischiati nel nostro sistema giudiziario, che con un buon lavoro, o all’università». In una conferenza stampa avvenuta alla Casa bianca lunedì pomeriggio, Barack Obama ha parlato di Ferguson contestualizzando quello che sta succedendo nel sobborgo di St. Louis in un discorso più allargato sul problema della discriminazione razziale/sociale, e ricordando implicitamente («mi sono impegnato di persona a cambiare sia la percezione di questo quadro che la sua realtà») l’iniziativa (200 milioni di dollari da spendere in 5 anni) che ha promosso a partire dal febbraio scorso proprio per promuovere l’integrazione dei giovani afroamericani in una società civile e in un mondo del lavoro in cui spesso non trovano posto.
Rispetto alla morte di Michael Brown, l’atteggiamento pubblico di Obama è stato finora meno «personale» di quello che aveva assunto dopo la morte di Trayvon Martin («se avessi un figlio maschio assomiglierebbe a lui», aveva detto il presidente del teen ager della Florida ucciso da un vigilante, nel 2012), ma è chiarissimo che sta seguendo la cosa molto da vicino. Per ora, è il suo ministro della giustizia Eric Holder la presenza più attiva e visibile dell’amministrazione su Ferguson. Holder, che ha indetto un’inchiesta federale sulla morte di Brown, è atteso in Missouri nella giornata di oggi.
Durante la conferenza stampa, Obama ha lasciato intravedere un certo scetticismo nei confronti della decisione del governatore (democratico) del Missouri Jay Nixon di chiedere l’intervento della guardia nazionale. Dopo aver sottolineato che si trattava di una scelta autonoma, e che le truppe andavano usate solo «in modo circoscritto e approriato», il presidente ha promesso: «Vedrò nei prossimi giorni se è un aiuto o se, al contrario, rende la situazione ancora più difficile».
In effetti, ieri mattina, il verdetto sulle conseguenze dell’intensificazione della presenza militare a Ferguson non è positivo: due feriti e circa trentun arresti confermati sono il bollettino di una notte nuovamente punteggiata di scontri tra dimostranti e polizia. Le scene che si vedevano in Tv, dalle dirette dei canali all news (che ormai hanno lì molti corrispondenti), quando era già calato il buio ma non erano ancora scoppiati episodi di violenza vera e propria, mostravano, da un lato schieramenti di poliziotti in riot gear, dall’altro piccoli drappelli di manifestanti che urlavano e, tra le due fazioni, altri manifestanti, che cercavano di allentare le tensione tra gli schieramenti, chiedendo a uno e all’altro, rispettivamente, di retrocedere. Una danza convulsa, insomma, che avrebbe potuto trasformarsi in caos al primo passo falso. Come poi è successo. è una danza che riflette un pò la situazione «sul campo» come descritta nelle dichiarazioni rilasciate non solo da Ronald Johnson, il capo afroamericano della stradale del Missouri «ufficialmente» incaricato di condurre le operazioni per la sicurezza, ma anche dai leader delle chiese locali, attivissime durante le manifestazioni che hanno seguito l’uccisione di Michael Brown, e che stanno chiedendo che la protesta rimanga non violenta.
Che, come sostengono Johnson e alcuni portavoce della comunità, la violenza sia adducibile solo a pochi individui (i soliti «agitatori venuti da fuori») che vogliono destabilizzare l’atmosfera pacifica delle proteste o che (come probabile) la situazione sia più sfumata e intenibile, è chiaro che ad ogni sfoggio, anche simbolico, di misure repressive, la temperatura del disagio e della sfiducia sale, invece di scendere: è fallito il coprifuoco istituito domenica ed ha fallito anche la National Guard, la cui presenza ha solo rimandato alle immagini di interventi analoghi nella lunga storia della battaglia contro la discriminazione razziale. Chiaro anche che la non trasparenza quasi totale con cui le autorità locali hanno gestito, e stanno gestendo, l’inchiesta sulla morte di Michael Brown continua. È virtualmente invisibile, oltre che silenziosa, la leadership della città – a partire dal sindaco James Knolwes III, e dal pubblico ministero della contea di St. Louis, Bob Mc Culloch, incaricato dell’inchiesta, le cui dichiarazioni preliminari e il cui curriculum lasciano pensare a una posizione di solidarietà pressochè assoluta con le forse dell’ordine.
Dall’altra parte, a chiedere giustizia e spiegazioni, quello che emerge in questi giorni di immagini drammatiche, e di continui dietro front rispetto alle misure scelte per gestire la protesta, è la rabbia e la frustrazione di una comunità non solo priva di rappresentanza istituzionale. A partire dal sindaco e del consiglio comunale, l’amministrazione di Ferguson è infatti quasi interamente bianca, nonostante due terzi dei suoi 21.000 abitanti siano afroamericani. Inoltre è assente qualsiasi forma di infrastruttura sociale che gestisca in modo efficace i suoi interessi in una crisi come questa. La frustrazione che serpeggia tra i manifestanti più o meno pacifici che stanno marciando su Florissant Avenue è il segno di uno scoramento e di un’alienazione che hanno trovato nell’ennesimo episodio di violenza contro un giovano afroemaricano, solo un ennesimo sfogo.
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