Quante bugie sull’articolo 18

Quante bugie sull’articolo 18

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È IN realtà un totem ideologico della destra, l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma questo nodo interroga al tempo stesso una sinistra in profonda trasformazione. Il primo aspetto è apparso molto chiaro in questi giorni ed ha dato pessima prova di sé una destra che continua ad invecchiare nei suoi tenaci pregiudizi. E nei suoi portavoce: un Alfano maldestro nelle dichiarazioni — non solo contro i venditori ambulanti.
E UN Sacconi sempre più oltranzista (forse per far dimenticare le pessime prove date a suo tempo come ministro). L’abolizione la chiedono tutti gli imprenditori, ha detto, una ragione ci deve pur essere… Ed ha aggiunto, a scanso di equivoci: bisogna semplificare il contratto a tempo indeterminato rendendolo più conveniente per i datori di lavoro. Il tutto è stato accompagnato da uno stonato concerto di giudizi privi di fondamento e intrisi, appunto, di pessima ideologia: l’articolo 18 ha danneggiato sviluppo e competitività (così un ex presidente di Confindustria, molto più reticente sulle responsabilità di quella organizzazione); l’alternativa alla sua abolizione sarebbe l’immobilismo totale (Maurizio Gasparri, noto esperto di diritto del lavoro e di sviluppo industriale), e così via. Si sorvoli pure sul carattere strumentale della estemporanea sortita di Alfano, che evoca bandierine o piccole manovre agostane, e la si prenda davvero sul serio. Ci riconsegna una destra che non si vergogna della propria tradizione antisindacale, della propria insensibilità sociale e dei guasti che ha prodotto nella storia del Paese: una destra capace ancor oggi di rimuovere il clima di pesanti illeciti, di brutali discriminazioni, di dure umiliazioni dei lavoratori compiute prima dell’entrata in vigore dello Statuto. È intessuta di dolori, quella storia: e in qualche modo si ripropose agli inizi degli anni ottanta, quando la riduzione drastica del lavoro nelle grandi fabbriche innescò drammi veri, alla Fiat come a Marghera e altrove. Essa incise brutalmente sui diritti pur affermati dallo Statuto ma pochi se ne accorsero nei “dorati anni ottanta”: comprendeva anche questo, quella “modernità”, ed è troppo ardito chiedere una riflessione su questo al vecchissimo Nuovo centrodestra. Forse gli si può chiedere però di non rimuovere un altro aspetto, e cioè la pessima spirale che fu innescata dall’abolizione dei diritti degli anni cinquanta e sessanta. È un aspetto centrale: non capiremmo altrimenti la durezza della rivincita sindacale dell’autunno caldo e della “conflittualità permanente” degli anni settanta. Una conferma probante, se ce ne fosse bisogno, che l’assenza di regole non favorisce, alla lunga, neppure la parte che sembra goderne i vantaggi più immediati. Apre dunque la via a molti errori e a molti guasti la rimozione del passato, ma va aggiunto che ancora una volta la destra nostrana non sa dare neppure giudizi fondati e pacati sul presente né misurarsi con il futuro. È pessima ideologia e pessima politica rimuovere la realtà di un lavoro di fabbrica quantitativamente sempre più ridotto e insidiato su più versanti, con un potere d’acquisto dei salari fortemente e progressivamente eroso da quasi trent’anni. Rimuovere, anche, l’indebolimento dell’articolo 18 già realizzato con la riforma Fornero e il clima di insicurezza (e di vetero revanscismo padronale) che è stato ulteriormente aggravato dall’operare di Sergio Marchionne. Ed è un puro inganno sostenere che i lavoratori privi di tutele si difendono togliendo i diritti a coloro che ancora li hanno (bugia dalle gambe cortissime, smentita ogni giorno dai fatti). Quando lo Statuto dei lavoratori fu approvato si disse, a ragione, che la Costituzione era finalmente entrata in fabbrica: siamo proprio certi che oggi, nella diffusissima paura di perdere il lavoro, la Costituzione in fabbrica non sia più necessaria? D’accordo, la domanda non va rivolta agli improbabili interlocutori del centrodestra: essa è però fondamentale per una sinistra che ha avviato una trasformazione profonda e che si interroga oggi sul senso, sull’orientamento (sul verso, per dirla con Renzi) da dare ad essa. Certo, la sinistra sconta anche qui un profondissimo ritardo, incapace come è stata fin dagli anni ottanta di misurarsi realmente con le trasformazioni del mondo del lavoro e delle sue culture, con vecchie e nuove precarietà, con vecchi e nuovi drammi. Oscillante talora fra poli opposti e portata a divaricazioni che hanno fatto più di un danno. Oggi tutto questo non è più possibile e nella rifondazione della sinistra i nodi del lavoro e dei diritti sono centrali. È fondamentale che vi sia in essa una vera “pedagogia per il futuro”, sono centrali indicazioni limpide e prospettive riconoscibili, nella consapevolezza che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. È una prova vera, quella che attende il Pd di Renzi, e va affrontata nella sua interezza. Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo.



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