La polizia uccide un altro nero A Ferguson è ancora rivolta

La polizia uccide un altro nero A Ferguson è ancora rivolta

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FERGUSON. ORA c’è un altro ragazzo nero ucciso dalla polizia, 10 giorni dopo Michael Brown. Ora non è più solo Ferguson il Ground Zero della rabbia razziale. Da questa cittadina di 21mila persone l’incendio minaccia di divampare alla vicina Saint Louis.
FERGUSON E SAINT Louis, con i suoi 1,3 milioni di abitanti, è la porta del Profondo Sud sul Mississippi. È sempre più ardua la missione del capitano Ronald Johnson, “l’angelo pacificatore” della polizia, il nero che cerca di ricostruire la fiducia tra la sua gente sconvolta.
All’una di notte abbiamo tutti gli occhi in fiamme e la nausea in gola per i lacrimogeni, almeno lui potrebbe proteggersi. Ma rifiuta d’indossare la maschera antigas in dotazione. «Capisco la vostra rabbia, io sono uno di voi, io sono nato qui», urla al megafono. Se c’è un eroe positivo, un uomo solo che si salva in questa sordida tragedia del profondo Sud, è il capitano Johnson, il poliziotto che rifiuta la risposta militare al dramma razziale dell’America. M’incollo a lui per tutta la notte per capire se c’è ancora una speranza in questa polveriera di tensione che calamita l’attenzione di tutta l’America, angosciata dal rito macabro che si ripete ogni notte: cocktail molotov, lanci di lacrimogeni, spari di arma da fuoco, caroselli di elicotteri, colonne blindate che assediano questa piccola Gaza del Missouri.
Johnson l’ho visto diventare celebre all’istante, il 14 agosto, quando prese il comando delle operazioni di polizia locale. Il primo ordine ai suoi uomini fu: «Toglietevi le maschere anti-gas, con questi aggeggi addosso non possiamo parlare alla gente». Lui non si lascia impressionare dal carosello infernale che scatta dopo la mezzanotte, quando la tensione diventa esplosiva tra le due armate che occupano l’incrocio tra la West Florissant e la Ferguson Avenue: da una parte ci sono pezzi della popolazione locale e gruppi di giovani radicalizzati, piccoli commando che si mescolano tra la folla dei maifestanti; di fronte c’è una smisurata mobilitazione di polizie locali, polizie di contea, con alle spalle la National Guard, combattenti reduci dall’Iraq e dall’Afghanistan, colonne blindate e tank, armi da guerra e tecnologie del Pentagono. Nella fragile e pericolosa striscia d’interposizione, si dileguano i sacerdoti delle varie congregazioni locali, i religiosi afroamericani ormai esautorati, avviliti, senza più alcun carisma verso le nuove generazioni arrabbiate. Tutti cercano lui, il capitano Johnson, l’unico leader rimasto sul campo. Quando avanza verso la polizia la prima folla minacciosa, Johnson non esita un attimo, d’istinto si lancia verso di loro, seguito da pochissimi agenti neri, neppure una vera protezione, mentre i poliziotti bianchi restano immobili là dietro, alzano scudi, imbracciano fucili ad altezza d’uomo, si mettono in formazione di guerra.
«I miei figli — dice il capitano circondato e sommerso dai manifestanti — hanno l’età di Michael Brown, hanno la vostra età, spezzare questo ciclo di violenza per me è una missione personale, è questione di vita o di morte. Io mi batto perché vincano gli ideali di Martin Luther King, la memoria delle sue battaglie del 1965, mi batto perché voi conserviate il diritto di protestare, non voglio gli arresti di giornalisti». Lui sì ha carisma, lui sa parlare il linguaggio di questa piazza. Nato in una famiglia povera qui a Saint Louis, 51 anni fa, laureato in criminologia, 27 anni di servizio in una polizia che più ostile non si può: il 94% degli agenti e il 99% dei capi sono bianchi, in un’area prevalentemente afroamericana. Non lo spaventa nessuno, neanche i giovani radicali con le magliette delle Black Panthers (esistono ancora, anche se hanno ripudiato la lotta armata del 1968), le t-shirt “Revolution-Nothing Less”. I più aggressivi gli urlano in faccia: «Ma tu dov’eri quando i poliziotti bianchi ci terrorizzavano? ». I più impauriti lo implorano: «Resta con noi tutta la notte, non ci lasciare soli, quelli ci ammazzano coi gas!». Un suo ex collega, un vecchio agente in pensione, per l’occasione si è rimesso la divisa d’ordinanza e il cappello, lo abbraccia e poi dice: «Quanti altri capi della polizia sono neri? Quanti generali neri abbiamo in Afghanistan? Lo sai che qui a Ferguson tra i nostri ragazzi c’è la stessa disoccupazione che c’è in Palestina?». Lui ascolta e risponde. A tutti. Fissa negli occhi i più giovani e arrabbiati: «Io sono qui per riuscire a separarvi dai capi delle gang, dagli spacciatori di droga, dai violenti venuti da fuori, perfino da New York e dalla California. Questa guerriglia urbana è contro di voi, se continua distruggerà l’economia del quartiere».
Johnson sa di cosa parla. A Detroit e a Newark nel 1967, a South Central Los Angeles nel 1992, alle violenze razziali seguì la fuga dei bianchi, degli asiatici, della piccola borghesia nera, quei quartieri devastati divennero delle no man’s land, più poveri di prima. Anche allora era intervenuta la Guardia Nazionale. «Un segnale di fallimento, lo scenario più disastroso. L’occupazione militare è l’ultima spiaggia, quando la società civile ha fallito», dice un ex collega di Johnson, Eugene O’Donnell che ora insegna crimonologia al John Jay College. Il capitano Johnson non risparmia parole dure alla sua gente. «La polizia è quasi tutta bianca, anche perché i ragazzi neri non ne vogliono sapere di lavorare nelle forze dell’ordine. Dobbiamo combattere la cultura della marginalità, del vittimismo. A mia figlia io dico: se la società è ingiusta, l’unica risposta utile è che tu raddoppi gli sforzi, devi essere due volte più brava all’università, rispetto ai tuoi compagni bianchi. È solo così che ne usciremo».
La sfida del capitano è vitale per l’America intera, non solo per il profondo Sud segnato da un razzismo che non muore. Un suo collega di Chicago, l’ex capo della polizia Thomas Reppetto, avverte: «Chi aveva mai sentito nominare Ferguson? Tutto è cominciato lì, ma la stessa spirale di violenza potrebbe riprodursi ovunque, anche a Chicago ». Oggi arriva da Washington il ministro di Giustizia, Eric Holder, anche lui afroamericano: inviato da Barack Obama per seguire le indagini federali sul poliziotto Darren Wilson, quello che crivellò di colpi il 18enne disarmato Brown, e che tuttora non è neppure in stato di fermo. Al dossier si aggiunge ora l’altra uccisione: di nuovo un ragazzo nero, 23 anni, accusato di aver rubato due bevande in un negozio, e di brandire un coltello.



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