Nel kibbutz di confine sotto i razzi di Hamas “La nostra vita tra le bombe”
NACHAL OZ .“ Tzeva adom, tzeva adom”. “Colore rosso”, urla l’altoparlante e in pochi secondi la lunga scia bianca del missile è visibile in cielo. Un pluff, una nuvoletta che sembra evaporare, poi arriva il botto, un tuono sordo. L’Iron Dome ha fatto il suo dovere, l’ennesimo razzo è stato intercettato, bambini ed adulti possono uscire dalla “stanza di sicurezza” nell’angolo della bassa, ma robusta, casa di pietra. «Fino al prossimo, dieci minuti, un’ora, non sappiamo». Benny Sela, il capo della Sicurezza scuote il capo, l’M-16 appoggiato al fianco, due walkie-talkie e tre cellulari sul tavolo. A Nachal Oz, il kibbutz di confine, duecento metri dalla Striscia di Gaza, l’allarme risuona dozzine di volte, «ci siamo abituati, ma lo stress aumenta ogni giorno che passa». Sopra la grande area agricola («il nostro kibbutz esporta frutta e verdura anche per Gaza») due grandi palloncini bianchi sono sospesi nell’aria. Sono l’occhio di esercito e aviazione, piccole e sofisticate telecamere che controllano Gaza dall’alto, metro su metro, indicando movimenti di uomini e truppe, rampe di razzi mobili, obiettivi sensibili.
La risposta israeliana non si fa attendere. Guardando oltre il robusto filo spinato che circonda il kibbutz, le case di Gaza City e dei villaggi palestinesi della Striscia si vedono a occhio nudo, il passaggio dei caccia è rapido, risuona il rumore cupe delle bombe, il fumo acre e grigio si alza in cielo. Dopo il raid dell’aereo senza pilota che nella notte tra martedì e mercoledì ha annientato la famiglia di Mohammed Deif (moglie, figlio di pochi mesi e bambina) e che secondo l’Intelligence di Gerusalemme (ci sarebbe un certificato di morte) ha ucciso anche la “primula rossa” di Hamas, ieri la vendetta di Israele ha colpito altri tre importanti comandanti militari delle brigate Ezzedin al-Qassam: Raed
Attar (responsabile del rapimento e della prigionia del soldato Shalit), Mohammed Abu Shamlah (capo delle operazioni contro i civili israeliani nel sud) e Mohammed Barhoum. Il walkie talkie gracchia, qualcuno parla, il generale Yoav Mordechai promette: «Nessun leader di Hamas può sentirsi al sicuro».
Benny Sela (omonimo di un più famoso stupratore seriale) racconta come si vive nell’estate dei missili, con un paio di tunnel dell’organizzazione terrorista palestinese scoperti a «poche decine di metri dal kibbutz ». È cosciente di come «il mondo vede questa guerra, tutte le colpe ad Israele, ma la realtà è che i nostri figli studiano al chiuso dei bunker e noi fuori a difenderli, mentre a Gaza i militari di Hamas si nascondono nei tunnel e donne e bambini restano fuori, scudi umani da mostrare morti alle tv. Noi non la vogliamo questa guerra, sono anni che gli diciamo non tirateci addosso i razzi. Non siamo certo felici che i bambini crescano in un ambiente così ostile».
La strada che da Nachal Oz porta a Or Haner, altro kibbutz di confine (poco più di due chilometri da Gaza), è deserta. Solo qualche mezzo militare e soldati che fanno un cenno di saluto. Ieri sono stati richiamati 10mila riservisti, l’ipotesi di una nuova azione via terra non è da escludere. Nel cielo le scie dei razzi continuano, come continuano i botti delle bombe di rappresaglia. Edy Polonsky è argentino, ha lasciato la sua patria di origine negli anni spietati della dittatura militare («o andavo via o rischiavo di sparire»), il piccolo ufficio è impregnato dagli odori della fattoria. «Ero molto di sinistra allora, da 35 anni sono qui, in un kibbutz di frontiera, ci resto per un ideale. Ho amici anche di là, a Gaza, sono in contatto con loro. Si dovrebbe parlare anche di chi, ed è la maggioranza, non sta con i terroristi, quelli che vengono ammazzati solo perché non sono d’accordo (ieri Hamas, e se ne sono vantati, ha ucciso a sangue freddo tre “collaborazionisti”, dopo «un breve interrogatorio», ndr).
«Io non odio gli arabi, ho amici fra loro, e ho anche tante domande da fare a Netanyahu e a chi ha governato Israele negli ultimi 14 anni. Vorrei chiedere loro se capiscono quello che noi, qui al sud, abbiamo vissuto sotto i razzi palestinesi, di Fatah prima, di Hamas poi. Il governo non vuole parlare con Hamas e allo stesso tempo non vuole che Hamas scompaia. Sanno dire solo di no, se si vuole negoziare occorre dire anche qualche sì. Vogliono l’aeroporto? Diamoglielo. Se poi lo usano contro di noi basta un F-16 per distruggerlo in pochi minuti. Io non voglio più che i nostri figli crescano in mezzo alla guerra e all’odio. Il mio a 12 anni riconosce il rumore di razzi, missili, mitra o proiettili di artiglieria meglio di qualsiasi ufficiale italiano, spagnolo, argentino o di altri paesi che vivono in pace».
Mentre il sole cala sui kibbutz e su Gaza, le armi continuano a suonare la loro musica di morte. Un razzo M75 viene lanciato (senza successo) sull’aeroporto Ben Gurion, un altro viene intercettato vicino a Gerusalemme, le sirene risuonano incessanti a Sderot, Beer Sheva, Netivot e nei villaggi del Negev. Corrono le notizie, il campionato di calcio che doveva iniziare nel weekend è stato posticipato, le scuole apriranno regolarmente il primo settembre (ma non ad Ashkelon, la grande città del sud), Hamas ammette pubblicamente per la prima volta di aver pianificato il rapimento e l’assassinio dei tre adolescenti israeliani a giugno. Quando tutto ha avuto inizio.
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