by redazione | 26 Agosto 2014 15:29
All’inizio di questo libro — Utopiques II, L’homme est un animal utopique, Sens&Tonka — , che fa parte di una trilogia dedicata all’utopia, il filosofo francese Miguel Abensour ricorda come questo termine fosse caduto in discredito al termine del secolo passato: schiacciato da fine della storia, decostruzione e postmoderno, il pensiero utopico era considerato un rottamabile residuo. Tra l’altro, veniva accusato del misfatto di complicità con i funesti totalitarismi del Novecento. Non erano forse utopie di trasformazione globale l’Uomo Nuovo della rivoluzione sovietica, ma anche il Regno millenario del nazismo?
Abensour propone una diversa concezione dell’utopia, basandosi soprattutto sul pensiero di Emmanuel Lévinas e Walter Benjamin e dandone una interpretazione critica e radicale. Di Benjamin sono riprese soprattutto le considerazioni contenute nei due exposés introduttivi alla grande opera su Parigi, capitale del XIX secolo. In essi Benjamin coglie il volto ambivalente o se vogliamo ambiguo dell’utopia, il suo oscillare tra fantasmagoria e rivolta, tra mito e risveglio rivoluzionario. La ricezione di un’immagine di sogno, che appartenga al collettivo di un’epoca o al singolo pensatore utopico come Fourier, è necessariamente complessa e richiede un intervento consapevole dell’interprete: «Invece di congedare o dissolvere l’utopia, si tratta piuttosto della sua impegnativa separazione dalle immagini mitico-arcaiche, di liberarne infine le virtualità emancipatrici, di assicurarne la salvezza… Il sogno preso tra due impulsi contrari, il sonno o il risveglio, si trasforma in momento, in scena antagonista». All’immagine di sogno del collettivo e di un’epoca storica occorre applicare quella stessa disciplina ermeneutica che Freud applicava ai sogni dell’individuo, considerando le condensazioni e gli spostamenti che subisce il desiderio censurato e rimosso: non però per abolire la dimensione del desiderio, ma per trovare la via della sua possibile realizzazione pratica e politica.
Con le immagini di sogno «la collettività cerca di eliminare e di trasfigurare l’imperfezione del prodotto sociale» (Benjamin), cerca cioè di presentare il proprio tempo come quello del compimento della storia, in cui ogni conflitto è cessato o inesistente, come se nel presente si attuasse la «storia originaria… una società senza classi». In ogni immagine di sogno si presenta dunque una contraddizione costitutiva: da un lato esse contengono un nucleo utopico, che promette la fine della storia, del dolore e dello sfruttamento; dall’altro tale fine è solo immaginaria e connessa a doppio filo al progresso del capitale, che in realtà continua a produrre astrazione e separazione.
Il desiderio della società senza classi e senza servitù, di per sé rivoluzionario, viene così passivizzato e ricondotto a una dimensione mitica, in cui perde la sua carica critica potenziale; risolvendosi nella felicità feticista promessa dalle merci, diviene fantasmagoria. Il capitale non potrebbe mantenere il suo potere solo con lo sfruttamento del lavoro e la violenza costrittiva; deve riassumere in sé la potenza dell’immagine di sogno, trasformarla in utopia del capitale. Questa include però un «lato infernale», l’eterna ripetizione della medesima mancanza, la conferma del non poter essere.
Se la verità della merce e del capitale è la crescente e progressiva astrazione del valore di scambio e del tempo di lavoro dominato, ogni singolo fenomeno deve apparire come l’inverso: eternamente assertivo e festivo. Il desiderio è esso stesso «messo al lavoro» dal capitale e in tal modo la sua carica sovversiva è incatenata. La fantasmagoria opera la sua passivizzazione. Essa mantiene, neutralizza e distorce un desiderio potenzialmente eversivo della situazione data, determina la sua «rivoluzione passiva».
Contro di questa, il passaggio dall’immagine di sogno all’immagine dialettica dissocia ciò che il capitale ha fuso nella sua unità apparente, separa l’utopia concreta – il possibile che non è ancora — dalla sua trasfigurazione fantasmagorica. Non esiste fenomeno sociale che non sia tagliato dalla contraddizione tra alterità e ripetizione, tra l’immagine di sogno sprofondata nella fascinazione magica e il suo risveglio ad immagine dialettica, fra l’utopia che suppone la distruzione del dominio e quella che conferma l’ordine esistente. Il risveglio implica la critica di tale fusionalità fantasmagorica, la scissione degli elementi in conflitto, la scomposizione dell’unità fittizia: e quindi la liberazione dell’impulso rivoluzionario che restava addormentato nell’immaginario.
A questo lavoro critico, Abensour associa l’epoché fenomenologica praticata da Emmanuel Lévinas e la sua visione ontologica di un altrimenti che essere. In un senso insieme politico e ontologico, questo termine designa una radicale alterità, e l’intenzione di trascendere a ogni costo la situazione data. Si tratta di un esodo dal dominio, che Lévinas ha indicato col termine di evasione, e che nell’interpretazione di Abensour diventa una ineludibile modalità esistenziale: «Caratteristico dell’utopia non è tanto il proporre un ordine nuovo, quanto il procedere a un dislocamento di ciò che è e che pare naturale, sotto il nome schiacciante di “reale”». Lo scarto utopico diviene un’interferenza produttiva nell’ordine simbolico del capitale, una messa in questione del suo statuto inalterabile.
Certo, esiste una tendenza mitologizzante dell’utopia, che può perdersi nella prefigurazione totalitaria di un Uomo Nuovo. Ma esiste anche un’utopia dialettica, che è piuttosto, ogni volta, la riproposizione di una differenza non colmabile, di un non-luogo, che attiva l’immaginazione e il desiderio. Nei tre libri dedicati all’utopia, Abensour ne ripercorre la storia concreta: Benjamin viene posto a confronto con Tommaso Moro, Leroux, Fourier, Saint-Simon, Morris, che compaiono come i creatori della sua tradizione e delle sue possibili varianti.
L’epoché utopica di Lévinas tende secondo Abensour all’incontro con l’altro uomo «nella sua unicità di incomparabile», sospendendo ogni relazione con l’altro come «parte del mondo» e cioè come essere dominato e soggetto a una relazione di padronanza. Questa tensione utopica verso l’altro è certo il culmine dell’intenzione etica di Lévinas, ma per Abensour essa ha anche un carattere intensamente politico. È ciò che lo stesso Lévinas definisce come principio an-archico, in senso letterale: tentativo di costruire un essere-in-comune con l’altro, senza il riferimento a un principio simbolico sovraordinato e immutabile.
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