Il marketing della bontà
A MILANO uno beve un bicchiere di Coca Cola e a Llorò, in Colombia, agli abitanti arriva un impianto di depurazione dell’acqua. L’“effetto farfalla” declinato al tempo del marketing della bontà. O, come lo definiscono gli esperti, il social related marketing . Pubblicità legata al sociale. Il cui assioma di base, in sintesi, è questo: se collego il fustino di detersivo a una campagna di sostegno delle scuole italiane (lo fa la Henkel), lo venderò meglio. Se propongo sacchetti di plastica per il sottovuoto (è il caso della Besser Vacuum) e appoggio la lotta alla malnutrizione infantile in Benin, il consumatore se ne accorgerà. E comprerà.
Sempre di più le aziende italiane lo fanno. Avvicinano il proprio nome a grandi e piccole battaglie sociali, raccolgono fondi, investono in spot di sensibilizzazione che sparano sulla Rete. In giro per il mondo una buona causa da perorare la si trova sempre. Meglio se sociale, glocal, terzomondista, per la parità dei diritti, ecologista. Sono le più efficaci per dare una rinfrescata al brand. Metodo applicabile anche alle persone, volendo. Se il tormentone dell’estate non è più la solita canzonetta ballabile di tre note e mezzo ma una gara a rovesciarsi (a favore di telecamera o cellulare) una secchiata d’acqua ghiacciata sulla testa per raccogliere fondi anti Sla, qualcosa vorrà pur dire.
Nel 2012, secondo l’ultimo rapporto della Fondazione Sodalitas-Nielsen, sono stati investiti in Italia 207 milioni di euro in campagne di marketing sociale, per un totale di 12.791 messaggi pubblicitari. La fetta è ancora minima rispetto alla torta, il cause related marketing copre lo 0,61 per cento del mercato. «Ma nel 2013 si registra una lieve crescita dopo un periodo di crisi — spiega Massimo Ceriotti, responsabile della comunicazione di Sodalitas — quando la campagna è coerente con i valori che l’azienda esprime riesce a fare la differenza sul consumatore. Soprattutto in quei settori dove l’offerta è poco differenziata». Non è un caso, infatti, che la più attiva sia Pool Pharma (27milioni di euro investiti), presente nel suk dei prodotti alimentari dietetici, dove tutti offrono tutto. Tra le prime dieci ci sono poi Alessanderx spa (21 milioni), Conad (9,6 milioni), Procter & Gamble (7,4 milioni), Pomellato (5 milioni) e Samsung (4,3 milioni).
L’idea venne nel 1983 a quelli dell’American Express che lanciarono un’iniziativa per il restauro della Statua della Libertà di New York: prevedeva la donazione di un penny per ogni transazione fatta con la carta di credito e un dollaro per ogni nuovo cliente. Il risultato fu clamoroso, l’uso delle carte aumentò del 28 per cento in un anno e furono raccolti 1,7 milioni di dollari a favore della Ellis Island Foundation.
Motivo sufficiente per battere quella strada. Oggi nella strategia di comunicazione dei grandi gruppi il social marketing raramente manca. In ordine sparso, e senza la pretesa della completezza: Coca Cola e Autogrill hanno proposto l’anno scorso il “Menu Perfetto — xmas edition” per devolvere una parte del ricavato alla Croce Rossa, la Mondadori ha un progetto per la promozione della lettura per i bambini, Poste Italiane raccoglie fondi per la lotta ai tumori del seno, la Vodafone è impegnata in quella contro l’Aids, la Deutsche Bank sostiene il centro di accoglienza napoletano “La Casa di Tonia”, la P&G incoraggia la parità di genere con i famosi spot “Thank you mum” passati in tv durante le Olimpiadi. E la Dove ha commosso la rete con una serie di video sulla bellezza “vera e normale” delle donne.
«Queste campagne sono molto utilizzate negli Stati Uniti, in Europa del Nord e in Cina — dice Massimo Giordani, vicepresidente dell’Associazione italiana marketing — un po’ meno da noi. Tant’è che la Ice bucket challenge finora in Italia ha portato un risultato, in termini di soldi raccolti per la Sla, minore in percentuale rispetto all’America ». Dunque italiani narcisi ma un po’ tirchi? «No, il problema è che da noi l’utilizzo del web è meno diffuso che altrove, i social network si frequentano molto per uso ludico e poco per fare business, siamo l’ultimo paese in Europa per e-commerce e questo include anche le donazioni». Ergo, le campagne virali su Internet da noi sono meno efficaci. Assomigliano di più a una vetrina aziendale.
Non si può non vedere che, ad esempio, proprio la Coca Cola che investe miliardi di dollari in pubblicità anche sociali ha dei problemi di immagine in alcuni paesi, tra cui proprio la Colombia dove pure è impegnata in iniziative di solidarietà. Il timore è che qualcuno possa servirsi di questo maquillage della bontà per coprire magagne varie, sfruttamento di lavoratori, inquinamento dell’ambiente. «Facciamo un po’ di chiarezza — premette Alberto Contri, presidente della fondazione Pubblicità Progresso — è ovvio che le aziende lo fanno per migliorare l’immagine e, possibilmente, avere un ritorno in termini di vendite. A noi va bene, perché sono spot utili. L’importante è utilizzare i mezzi giusti. Ad esempio la pubblicità contro gli abusi sulle donne fatta da una nota ditta di lingerie, in cui il brand occupa tutta la pagina ed è più visibile del messaggio sociale che si vuol propagandare, non è certo una buona campagna. Così come qualche perplessità mi hanno suscitato quelle foto choc contro l’anoressia di Oliviero Toscani, pur sempre promosse da un marchio di abbigliamento».
Tra chi lo fa perché ci crede, chi solo per far parlare di sé, e chi vuol vendere un fustino di detersivo in più, c’è anche la questione dei fondi raccolti. Chi li controlla? «In Italia non c’è l’obbligo di rendicontarli — osserva Contri — era un ruolo che si poteva affidare all’Agenzia delle onlus. Ma il governo Monti l’ha chiusa»
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