Alla luce della lanterna per raccontare il regno delle acque

by redazione | 11 Agosto 2014 10:12

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UNA lampadina di 12 watt grande come un’unghia. Ecco cosa c’è nell’occhio del Ciclope, uno dei più potenti fari del Mediterraneo, una macchina capace di penetrare la notte anche per un diametro di settanta miglia, la distanza tra l’Africa e Mazara del Vallo; una spada di luce che, se lanciasse il suo raggio in verticale, sarebbe visto anche dai satelliti, così come nelle notti serene noi vediamo la luce intermittente dei satelliti a occhio nudo. Non so perché ci ho messo tanto a guardare dentro i cristalli concentrici dell’apparato ottico. Stamattina ci ho ficcato il naso e ho trovato — sbalordito — una capocchia di spillo, dodici watt per sessanta volt, come una miserabile lampadina d’automobile. Il viaggio nel mondo dei fari ricominciava da lì. Dalla scoperta che la potenza di una lanterna di mare non sta in un nucleo ardente di energia inimmaginabile, da un nocciolo tipo centrale nucleare, ma nel fantastico gioco di prestigio di alcuni prismi capaci di moltiplicarlo.
C’è un mondo, nascosto in quel mirabile arnese. Se l’isola è il centro di un mare — la nostra lo è — e c’è un faro che sta al centro di quell’isola, allora è proprio il faro è il centro euclideo di quel mare. Ma siccome niente come la lampadina sta al centro di un faro, allora possiamo trarre la conclusione che, anche geometricamente, quella fonte di luce appena più grande di uno stuzzicadenti possa essere, a tutti gli effetti, il punto di mezzo del nostro regno delle acque. Se infine teniamo a mente che il Mediterraneo sta al centro delle terre che formano Europa, Africa e Asia, possiamo portare al limite estremo la nostra visione e dire che proprio
quel filamento di una frazione di millimetro può legittimamente dirsi punto di mezzo di tre continenti vasti migliaia di chilometri. Così viene da pensare, quando si passa qualche ora lassù, di notte, col vento che scardina i vetri, davanti a un cristallo che ti cattura come l’iride di un gatto nel buio.
A Trieste, quando voglio farmi raccontare storie di tempeste e bastimenti, vado allo Skipper Point a sentire capitan Sandro Chersi, uno che non ha scritto quasi un rigo in vita sua ma sa narrare come pochi. Per una noia alle corde vocali, la sua voce è poco udibile e gratta come un vecchio settantotto giri, ma è proprio questo che lo ha obbligato a ridurre il parlare all’essenza più mirabile, come un esametro greco o una pietra levigata dalle tempeste. Bere con lui un calice di malvasia può essere il preludio di mille e una meraviglie, un godimento per l’anima; e siccome gli scrittori altro non sono che ladri dei racconti a voce fatti da altri, io spesso mi attacco alla sua compagnia per perpetrare qualche furto con destrezza. Lui lo sa benissimo, e gli va bene così. Ho persino il sospetto che mi sia vagamente affezionato. Ma ora è tempo che dia a Cesare quello che è di Cesare.
Ricordo di quando mi narrò l’avvistamento del faro di Pelagosa, che in Adriatico è impossibile mancare durante la regata Rimini- Corfù. “Stai a testa alta al timone e non dici niente… Quello è un luogo che ti fa capire che, oltre al lumino della tua esistenza c’è l’incommensurabile nulla…. Quello strapiombo è la rappresentazione del mistero, sei davanti a qualcosa che ridicolizza le miserie degli umani… E poi di notte, con calma di vento e le stelle, puoi sentire le generazioni passate su quella rotta prima di te…”. Così diceva, per poi dare la stura a una delle sue consuete sequele di invettive contro la modernità che aveva ucciso i fari con il Gps per poi svuotarli della presenza umana con l’automazione. Il faro di Pelagosa, lui lo sapeva, era uno dei pochi ancora abitabile e governato da uomini. Ed erano di sicuro uomini con la “U” maiuscola.
Una sera triestina l’avevamo passata a spritz e patatine allo Yacht Club Barcolana, insieme al due volte campione del mondo Daniele Degrassi, e sentii i due lupi di mare descrivere i più bei fari del mondo. Capo Finisterre, il re delle tempeste in Bretagna. Cape Leewin in Austrialia, a strapiombo su onde color zinco sotto un sole abbacinante. E poi il Fastnet — ma certo il Fastnet in Irlanda! — giro di boa di una delle regate più leggendarie di tutti i mari, “il più bello come forma e proporzioni”, dove per veder passare i concorrenti “vedemmo sbucare dalla nebbia decine e decine di barchette con famigliole irlandesi a bordo in un mare che era quasi tempesta”. E poi perché no, i “nostri” fari adriatici, e per “nostri” i due marioli intendevano ovviamente gli indistruttibili bastioni che la defunta monarchia austro-ungarica aveva distribuito sulla costa orientale.
Tramontava, e io sentivo frasi del tipo: i fari vanno attesi, cercati… sono i tuoi parenti stretti, sono mamma e papà… ma oggi con la navigazione satellitare la magia è finita… puoi prevedere al minuto secondo quando li vedrai… e poi che siano accesi o spenti non cambia. Cose così. “Sai quale è stato il faro più deludente della mia vita?”, mi chiese Sandro a bruciapelo. Ovviamente non potevo indovinarlo. Il capitano rispose: “Portorico, perché è stato il primo che ho visto col navigatore satellitare”. Sopra di noi, l’immenso faro della Vittoria, con in cima l’angelo dalle grandi ali aperte, sembrava annuire con i primi lampi nella sera.
Sull’evoluzione dei tempi capitan Sandro aveva le idee chiare. Dopo la battaglia di Lissa del 1866, vinta dagli austriaci con equipaggi adriatici contro un’Italia in prevalenza tirrenica, qualcuno aveva sentenziato che “uomini di ferro su barche di legno avevano battuto uomini di legno su barche di ferro”, per dire che la flotta italiana, più moderna, era stata sgominata da indomiti marinai della vecchia guardia. Quella sera Chersi completò la parabola della degenerazione dicendo in dialetto, con un lampo negli occhi: “Ogi gavemo omini di merda su barche de plastica”. Non potevo dargli torto. Se ero scappato su un isola solitaria era anche per parlare al mare senza l’orda degli arroganti tra i piedi.
(continua)

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