L’Isis e il video dell’orrore «Decapitato James Foley Ora l’America si ritiri»

L’Isis e il video dell’orrore «Decapitato James Foley Ora l’America si ritiri»

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James Foley aveva insegnato a leggere e scrivere ai carcerati prima di voler tornare lui a studiare, a imparare un nuovo mestiere. A 35 anni aveva scelto di percorrere le strade impolverate del Medio Oriente, anche se l’idea gli era venuta mentre lavorava nella prigione alla periferia di Chicago, vite deragliate, storie da raccontare. Come quelle che era andato a cercare in Afghanistan, il primo servizio all’estero, con la 173esima Divisione, tra le montagne della provincia di Kunar, negli avamposti americani circondati dai combattenti talebani.
In Afghanistan era rimasto mesi, con la telecamera girava i video che inviava al sito Globalpost, nell’agosto del 2010 aveva seguito la 101esima, le Aquile urlanti, durante l’offensiva nella valle dell’Arghandab, quella che avrebbe dovuto cambiare l’andamento della guerra e l’immagine dei soldati tra i contadini locali: sorrisi, riunioni con gli anziani dei villaggi, progetti per fare arrivare l’acqua potabile dove non c’era mai stata. Riprendeva i bambini che chiedevano le penne ai militari in pattuglia tra i muri di fango, ammetteva di essere un po’ deluso perché non era ancora riuscito a filmare uno scontro a fuoco: «Si vendono bene ai grandi network», diceva. Era un freelance, girava a spese sue. Come in Siria, dov’era stato più volte prima di essere rapito il 22 novembre del 2012 nella città di Taftanz, era entrato dal confine turco. Un’inchiesta condotta da Globalpost aveva sostenuto che fosse detenuto dal regime in un carcere vicino a Damasco.
Ieri lo Stato Islamico ha diffuso il video della sua esecuzione, Viene mostrata una fotografia del periodo afghano: James indossa il giubbotto antiproiettile, color verde marcio, una maglietta mimetica. I fondamentalisti vogliono implicare che fosse legato all’esercito. Era un giornalista, come altri aveva accettato di essere «embedded», di accompagnare le truppe nelle missioni, l’unico modo di poter arrivare alla prima linea, di poter visitare aree altrimenti troppo pericolose, di vedere anche quello che l’esercito non vorrebbe mostrare. E’ il fratello John ad aver scelto la carriera militare, pilota d’aviazione. A lui James – vestito di una tuta arancione simile a quella dei prigionieri a Guantanamo – è costretto a rivolgersi dai suoi carnefici, le ultime parole che gli hanno imposto prima di decapitarlo: «Pensa a quel che stai facendo, pensa alle vite che distruggi, pensa a chi ha preso la decisione di bombardare l’Iraq. Sono morto quel giorno John, quando i tuoi commilitoni hanno sganciato le bombe sulla popolazione. Speravo di avere più tempo, la speranza della libertà e di rivedere la mia famiglia ancora una volta. Quella nave ha lasciato il porto, alla fine sarebbe stato meglio non essere americano». Il filmato, di cui la Casa Bianca sta ancora verificando l’autenticità, è intitolato «Messaggio all’America» e le immagini finali mostrano un altro giornalista, indicato come Steven Joel Sotloff: «La vita di questo cittadino americano dipende dalla tua prossima decisione, Obama», proclama con accento britannico il terrorista mascherato e bardato di nero.
James Foley era stato sequestrato anche in Libia, dove aveva seguito la rivolta contro Muhammar Gheddafi fin dall’inizio nel febbraio del 2011. I soldati del Colonnello avevano fermato l’auto su cui viaggiava con altri giornalisti (uno di loro era stato ucciso) e li aveva portati via. Allora la famiglia era stato in grado di rintracciare i suoi spostamenti, trascinato per il Paese dai carcerieri, e dopo 45 giorni di campagna per la liberazione, il regime aveva finito con il rilasciarlo.
Davide Frattini



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