L’acciaio svenduto ai colossi indiani

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Le auto e gli auto­bus ex Fiat ai cinesi, l’acciaio (s)venduto agli indiani. Se Ter­mini Ime­rese e Iri­sbus — la prima fab­brica ita­liana chiusa da Mar­chionne, ora con la pro­spet­tiva King Long sotto il “finto” mar­chio Indu­stria Ita­liana Auto­bus — potreb­bero pre­sto par­lare man­da­rino, i due più grandi poli side­rur­gici stanno per diven­tare indiani. Piom­bino e la Luc­chini a Jin­dal, Taranto e l’Ilva molto pro­ba­bil­mente a Arce­lor Mit­tal. Il governo si rivende gli inter­venti come posi­tivi met­ten­doli per­fino in rela­zione con la vicenda marò, ma a fare affari sono soprat­tutto i giganti indiani: com­prano a prezzi strac­ciati con­cor­renti impor­tanti entrando di forza nel mer­cato euro­peo. A per­derci, come al solito, i lavo­ra­tori: il futuro parte con il forte rischio che migliaia di loro per­de­ranno il posto.

Per quanto riguarda Ilva e Taranto ieri è arri­vata la let­tera di intenti del colosso Arce­lor Mit­tal. Il com­mis­sa­rio Piero Gnudi ha rispo­sto chie­dendo un piano indu­striale, men­tre non si esclude che dell’operazione pos­sano far parte anche i gruppi ita­liani Mar­ce­ga­glia e Arvedi. Ma le pro­spet­tive per Taranto sono ancora nebulose.

Por­tati in ritardo a casa i soldi della quat­tor­di­ce­sima, i pros­simi mesi potreb­bero rive­larsi un cal­va­rio per gli 11 mila dipen­denti diretti. Gnudi ha dovuto infatti ammet­tere che nono­stante i favori alle ban­che — la pre­de­du­ci­bi­lità, la norma che tutela i cre­diti elar­giti anche in caso di fal­li­mento — il pool di isti­tuti ita­liani a cui è stato richie­sto il pre­stito ponte neces­sa­rio per non fal­lire elar­gi­ranno solo 200 dei 650 milioni richie­sti. Una cifra bas­sis­sima. Che non per­met­terà di arri­vare a fine anno nem­meno con i paga­menti degli sti­pendi. E che rende ancora più neces­sa­ria la ven­dita — in tutto o in parte — a Arce­lor Mit­tal. Natu­ral­mente a prezzi ancora più stracciati.

Il valore indi­cato per la cit­ta­della taran­tina è di circa un miliardo. Ma c’è chi è pronto a scom­met­tere che la cifra finale sarà molto più bassa. Anche per­ché i veri inter­ro­ga­tivi riguar­dano i circa 4 miliardi neces­sari al risa­na­mento ambien­tale e chi dovrà sbor­sarli. «Noi pen­siamo che Gnudi stia sba­gliando a ven­dere a Arce­lor Mit­tal — attacca Rosa­rio Rappa, segre­ta­rio nazio­nale Fiom Cgil -. Anche per­ché pone la con­di­zione di non accol­larsi i debiti e di creare una bad com­pany in stile Ali­ta­lia. Con i pro­cessi in corso con­tro i Riva e per il disa­stro ambien­tale cre­diamo che sia più logico un inter­vento tem­po­ra­neo dello Stato che nazio­na­lizzi l’acciaieria e fac­cia pagare i respon­sa­bili di que­sta situazione».

A Piom­bino le cose sono più deli­neate, ma non meno fosche. L’offerta del gruppo Jin­dal pre­sen­tata al liqui­da­tore non pre­vede l’acquisto dell’altoforno, che quindi spa­ri­sce defi­ni­ti­va­mente met­tendo in for­tis­simo peri­colo 1.400 posti su 2.200, senza con­tare l’indotto. Alle prese con i con­tratti di soli­da­rietà rin­no­vati dopo la firma dell’accordo di pro­gramma, bene che vada solo 700–800 di loro — quelli che lavo­ra­vano nei lami­na­toi e nelle atti­vità por­tuali — potreb­bero tor­nare ope­ra­tivi da fine anno o ini­zio 2015. Anche per­ché le pro­spet­tive di forno elet­trico e corex — tec­no­lo­gia verde e moderna — nei piani di Jin­dal rimane solo una pos­si­bi­lità futura.

Nell’offerta pre­sen­tata al com­mis­sa­rio straor­di­na­rio Piero Nardi nell’ambito del fin troppo lungo bando orga­niz­zato dal mini­stero dello Svi­luppo, Jin­dal è stata l’unica a chie­dere Piom­bino. Il tutto dun­que senza con­cor­renza e venendo per­ce­piti come i “sal­va­tori” della patria, dopo la bufala Kha­led, il fan­to­ma­tico impren­di­tore plu­ri­pre­giu­di­cato gior­dano che — con il col­pe­vole appog­gio dei sin­da­cati — era stato spon­so­riz­zato in quanto unico pre­ten­dente anche dell’altoforno.

La cifra pre­cisa offerta da Jin­dal non è mai stata resa nota. Ma se fino a ieri si ipo­tiz­za­vano 3–400 milioni, ora si parla di cifre “sim­bo­li­che”, addi­rit­tura ben al di sotto i 100 milioni. Un valore quasi infe­riore a quello delle mate­rie prime stoc­cate a Piom­bino e ancora inu­ti­liz­zate. Per que­sto Nardi ha deciso di inta­vo­lare una trat­ta­tiva pri­vata con gli indiani, cer­cando di spun­tare un prezzo almeno soste­ni­bile per pagare i cre­di­tori, 120–130 milioni.

«Noi abbiamo sem­pre soste­nuto l’ipotesi di una ricon­ver­sione verde dell’area a caldo con il forno elet­trico per far tor­nare al lavoro gran parte degli ope­rai Luc­chini — spiega Marco Ben­ti­vo­gli, segre­ta­rio nazio­nale Fim Cisl — ma Jin­dal ha una paura matta della pub­bli­cità nega­tiva del caso Taranto. Dob­biamo farle cam­biare idea. E costruire sulla rap­pre­sen­tanza sin­da­cale un sistema per cui chi com­pra un’azienda sia tenuto alla respon­sa­bi­lità sociale e ambientale».



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