Gli Yazidi braccati sui monti di Sinjar «Anche i bambini sepolti vivi»
ERBIL — La fase culminante dell’eccidio degli yazidi si sta consumando giorno dopo giorno, da una settimana, sulle montagne di Sinjar. È una catena rocciosa, brulla, alta oltre 1.100 metri, lunga 25 chilometri e larga mediamente meno di quattro nell’Iraq settentrionale. Vi si trovano un pugno di villaggetti, alcuni disabitati, pochi pozzi d’acqua piovana, quasi per nulla sorgenti e una sola strada d’asfalto che la attraversa da nord a sud. Qui donne, bambini, anziani e pochi uomini tutti appartenenti a questa minoranza (circa 500.000 persone) seguaci di una religione con oltre 4.000 anni di storia, cercano rifugio dalla furia omicida dei fondamentalisti del nuovo Califfato. Li considerano sub-umani, eretici, «adoratori del diavolo» perché legati a riti e culti che precedono il monoteismo. Sono parte della diversità affascinante di culture e fedi remote, ma proprio per questo rischiano l’estinzione violenta.
Quanti morti? «Non abbiamo dati precisi. Sappiamo solo che ogni giorno diventa troppo tardi per salvarli. Da Bagdad il governo Maliki denuncia, eppure non fa nulla. Con l’aiuto americano e dei governi europei vorremmo aprire corridoi umanitari, ma tutto va terribilmente a rilento. Alla fine potremmo scoprire che un nuovo genocidio si è consumato sotto i nostri occhi», accusa con passione l’italiano Marzio Babille, il dirigente Unicef di recente nominato coordinatore delle attività Onu in Iraq. Negli uffici Onu di Erbil c’è chi paragona già la tragedia degli yazidi a quella dell’olocausto degli armeni nella Turchia degli inizi del Novecento. «Sinjar come Musa Dagh», dicono ricordando la celebre montagna dove gli armeni cercarono di resistere contro le truppe ottomane. Ma forse neppure i turchi erano motivati dal fanatismo assassino che guida oggi gli zeloti sunniti. Le telefonate disperate che giungono dagli yazidi accerchiati sono un coro di richieste di acqua e cibo. Si parla di centinaia di bambini morti di sete, disidratati dal caldo e dalla dissenteria. Pare che un grande numero di uomini sia stato massacrato sin dall’inizio dell’offensiva delle brigate islamiche tra il 5 e 10 agosto. Allora quasi 200.000 yazidi riuscirono a scappare verso nord, raggiungendo le città curde di Dahuq e Zakho. Ma altre decine di migliaia sono accerchiati. «Sulle cime della catena di Sinjar sono intrappolati in oltre 40.000. Altri sono in ostaggio. In genere gli estremisti islamici cercano di uccidere subito gli uomini che catturano. Quando hanno preso la città di Sinjar ne hanno fucilati a sangue freddo una sessantina di fronte alle loro famiglie, apposta per fomentare il terrore. Alla popolazione non concedono alternative come con i cristiani: se non ti converti muori», continua Babille. In alcune località sono state concesse poche ore per scegliere, chi accettava di diventare musulmano doveva segnalarlo legando sul tetto di casa o sui balconi un lenzuolo bianco. Prima di notte il villaggio biancheggiava di lenzuola appese.
Un alto numero di donne, potrebbero essere migliaia, pare sia stato preso prigioniero. Ancora all’Onu riportano tre località dove sono concentrate centinaia di donne, separate dai figli, dai mariti, probabilmente destinate a diventare «mogli» dei guerriglieri del Califfato. Le località sono: un grande capannone dell’aeroporto di Tel Afar; un capannone della zona industriale della città di Sinjar e un terzo gruppo che viene mosso per camion nella regione di Mosul. «Le donne più spaventate sono quelle a cui vengono portati via i figli e le più giovani senza marito. Temono che saranno le prime a essere date ai guerriglieri», dicono ancora all’Onu. È la tratta delle ragazze in versione irachena. In alcune telefonate che esse stesse sono riuscite a fare di nascosto dicono di essere pronte al suicidio pur di non diventare «prostitute» della guerriglia. A Bagdad il ministro dei Diritti Umani, Mohammed Shia al-Sudani, ha parlato di 500 vittime: «Alcune sono state sepolte vive, compresi bambini e donne» mentre «almeno 300 ragazze sono state prese come schiave».
Gli americani intanto sono giunti al quarto bombardamento degli ultimi tre giorni contro le colonne islamiche posizionate lungo i confini dell’enclave curda. Pare abbiano distrutto batterie di cannoni pesanti e soprattutto missili terra-aria, che sembra si trovassero negli arsenali dell’esercito iracheno catturati dagli islamici a metà giugno. A Erbil raccontano fossero già posizionati per tirare nei cieli dell’aeroporto internazionale. Forti del sostegno americano, i peshmerga (i guerriglieri curdi) tendono a riprendere l’iniziativa dopo le ritirate delle ultime settimane. Ieri hanno riconquistato i villaggi di Makhmour e al-Gweir nella piana di Niniveh. Londra e Parigi organizzano voli di aiuti umanitari. Ma il presidente del governo locale curdo, Masoud Barzani, incontrando a Erbil il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, chiede armi pesanti per far fronte agli arsenali del Califfato. Tra gli elementi di preoccupazione curda c’è tra l’altro il continuo flusso di guerriglieri dall’estero che rafforzano le file del nemico. Pare che nella zona di Sinjar una delle brigate più fanatiche sia composta di volontari libici arrivati dalle formazioni paramilitari islamiche di Bengasi.
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