by redazione | 10 Agosto 2014 11:39
ISTANBUL — Ci sono soltanto poche seccature sulla strada, altrimenti ben spianata, del primo ministro turco, l’islamico Recep Tayyip Erdogan, verso il Colle. O meglio, la collina di Çankaya, ad Ankara, sede del palazzo presidenziale. Tra lui e la realizzazione del sogno di una vita restano solamente piccole seccature, quasi più pericolose, però, dei suoi avversari ufficiali: il diplomatico Ekmeleddin Ihsanoglu (candidato prediletto, per così dire, del mondo arabo, nonché ufficiale dei due principali partiti d’opposizione) e il curdo Selahattin Demirta, che oggi si cimentano nell’impresa di guastargli un plebiscito annunciato.
Da Gezi Park spira ormai un vento di fronda sempre più debole, piazza Taksim è tranquilla, i sondaggi promettono a Erdogan, alla sua prima competizione presidenziale (ma soprattutto la prima a suffragio elettorale diretto), il 55-57 % delle preferenze. E lui si sente la vittoria in tasca per stasera, al primo turno, senza il disturbo di un ballottaggio il 24 agosto. Pazienza se la partecipazione al voto dovesse risultare bassa tra i 53 milioni di elettori: anche qui è tempo di ferie e l’opposizione è così demoralizzata da non volerne sprecare neppure un giorno per tentare invano di sbarrare la strada al «sultano».
Non si escludono sorprese, naturalmente. La strada non è tutta in discesa come sembra. Non si è ancora spenta l’eco delle 300 mila crasse risate diffuse on line dalle donne turche, in risposta al richiamo del vice premier Bülent Arinç al contegno. Femminile, beninteso: cioè a un atteggiamento composto e severo, come moralità comanda. Senza ridere in pubblico, per esempio. Né si è placata la rabbia del popolo di Twitter, censurato per intemperanze.
Dettagli di fronte al progetto che Erdogan ha iniziato a maturare molto tempo fa: diventare presidente, ma non di una Repubblica parlamentare, quale è ora la Turchia. Diventare presidente come Sarkozy e Hollande in Francia. O magari come Putin in Russia, malignano gli avversari, ricordando la comune insofferenza per Twitter. Dettagli. Un presidente eletto dal popolo, come lo intende Erdogan, governa. Con un primo ministro, possibilmente docile, ad assecondarlo.
«Se Dio vuole, domani nascerà una nuova Turchia» ha annunciato ieri Erdogan da primo ministro uscente. La Costituzione, concepita nel 1982 con la tara di un golpe militare due anni prima, non lo preoccupa. Ma gli analisti, nazionali e internazionali, concordano: il parto gli riuscirà facilmente solo se vincerà al primo turno, dimostrando forza sufficiente per cambiare le regole supreme.
Dalla sua il sessantenne Erdogan ha dieci anni di successi, dal 2003 al 2013, quando l’economia turca e la posizione del paese in Medio Oriente si sono eccezionalmente rafforzate. Contro di lui, gli ultimi dodici mesi: dalle repressioni sanguinose a Gezi Park allo scandalo, in dicembre, sulla corruzione di una parte del suo governo e di imprenditori vicini a lui. E, proprio ieri, fino agli insistenti pettegolezzi sull’autenticità dei suoi titoli di studio. In più il miracolo economico sembra sbiadire in un ricordo, con l’inflazione schizzata oltre il 9,30%. Va detto però che la crescita del Pil prevista per il 2014 farebbe sognare Matteo Renzi: tra il 2,8 e il 3%.
Nella sua campagna elettorale Erdogan ha saputo giocare con abilità su più tavoli: quello curdo, per cominciare, promettendo autonomia e istillando la convinzione che il processo di pace avanzerà soltanto con lui.
Gli avversari. A urne ancora chiuse firmerebbero certamente per un ballottaggio, seppure senza speranza. I kemalisti del Chp (Partito repubblicano del popolo) e la destra del Partito di azione nazionalista, rispettivamente prima e seconda forza di opposizione, puntano tutto su Ihsanoglu, 70 anni, professore universitario di Storia, ex presidente dell’Organizzazione per la cooperazione islamica. Un moderato, secondo gli osservatori, capace però anche di sedurre i conservatori finora fedeli a Erdogan. Ma non coalizzerebbe più del 34%, massimo 36% dei voti.
In ascesa, ma ancora in coda, Demirtas, con l’Hdp, il Partito per la Democrazia popolare, che si gioca quasi tutta la partita con Erdogan in campo curdo: potrebbe mietere il 9% delle preferenze, cioè raddoppiare la sua percentuale rispetto alle amministrative di marzo. Ancora troppo poco per sbarrare la strada al «sultano».
Elisabetta Rosaspina
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