Primo disgelo tra Mosca e Kiev «Presto le trattative per la pace»

by redazione | 27 Agosto 2014 8:24

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MOSCA — La diplomazia sembra fare i primi passi avanti con l’incontro a Minsk tra il presidente russo Vladimir Putin e quello ucraino Petro Poroshenko. Il colloquio, durato due ore, è stato intenso e non facile, ma al termine i due leader si sono detti d’accordo sulla «necessità di un dialogo» per una «soluzione politica che metta fine al bagno di sangue». Hanno quindi annunciato di aver raggiunto un’intesa per la creazione di un «gruppo di contatto» sulla crisi in Ucraina orientale. «Faremo tutto il possibile per progressi di pace, intensificando il dialogo su molte questioni», ha detto Putin, assicurando il «sostegno» della Russia per raggiungere un accordo tra Kiev e i ribelli filorussi, fermo restando che l’accordo «è comunque una questione interna all’Ucraina» e precisando quindi di «non averlo discusso nei dettagli». Il leader del Cremlino ha poi riferito di aver concordato con Poroshenko di riprendere le consultazioni sulla vendita di gas russo a Kiev, bloccata da giugno. Poroshenko si è detto pronto a discutere varie possibili «exit strategy» consapevole che «tutti gli attori coinvolti vorrebbero uscirne con dignità».

La soluzione della crisi non si prospetta però rapida. Poche ore prima dell’incontro bilaterale il Cremlino aveva dovuto incassare un colpo imbarazzante: la cattura da parte dell’esercito ucraino di 10 parà russi sconfinati, secondo Mosca, «per sbaglio». E sarebbero molti i militari di unità russe partiti per «esercitazioni» e di cui si sono perse le tracce. In un caso i genitori di un parà, il 20enne Ilya Maksimov che non dava notizie da dieci giorni, hanno saputo da Internet che il ragazzo sarebbe morto vicino a Donetsk, una roccaforte dei ribelli filorussi. Da due giorni uomini ben addestrati a bordo di tank e blindati hanno aperto un inoltre altro fronte più a sud, sul Mare d’Azov, in una striscia di terra che congiunge la Crimea alla Russia. E uomini e mezzi continuano ad arrivare da oltre la frontiera russa, da dove partono anche cannonate e missili.
I 10 parà catturati si trovavano, secondo Kiev, in un villaggio a 20 chilometri dalla frontiera. «Siamo carne da cannone, tutto è diverso qui, non come dicono in televisione», sostiene uno di loro, Ivan Melchakov, in un video rilasciato dagli ucraini. E il sergente Aleksej Generalov dichiara alla telecamera: «Smettete di mandare i nostri ragazzi. Perché? Questa non è la nostra guerra». Affermazioni che non sono state fatte davanti a osservatori neutrali e che quindi potrebbero non essere spontanee.
A Mosca, però, sono i parenti di tanti soldati a parlare. Genitori di decine di parà della divisione Pskov, con sede nell’omonima città, si sono rivolti ufficialmente alle autorità per avere notizie dei ragazzi che non si sentono da 10 giorni. Ilya, il giovane che sarebbe morto, era nell’unità 74-268, e i suoi non sono riusciti ad avere alcuna notizia dal comando. In un cimitero di Pskov lunedì sono stati sepolti due parà, Leonid Kichatkin e Aleksandr Osipov. Nessuno è potuto entrare. Due giornalisti che facevano domande sono stati aggrediti e minacciati. La madre di Valerij Komarov, un 19enne della regione di Magnitogorsk, ha denunciato che il figlio, che era di leva, è stato costretto a firmare per prolungare il servizio. Poi è stato spostato nella regione di Rostov sul Don, vicino ai nuovi combattimenti dove gli hanno tolto la piastrina identificativa.
A Valentina Melnikova, capo dell’associazione delle madri dei soldati, sembra di rivivere un incubo, quello del 1994. Più di 1.200 soldati russi vennero trasferiti d’autorità in un raggruppamento speciale, senza insegne e senza piastrine. Poi furono mandati all’attacco in Cecenia, in una operazione segreta coordinata dall’Fsk, successore del Kgb, che fu un fallimento. Molti morirono, altri furono catturati e confessarono in tv di essere russi. Il governo del presidente Eltsin prima negò tutto, poi dovette riconoscere che quei soldati erano suoi e trattare con i ceceni.
Fabrizio Dragosei

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