by redazione | 29 Agosto 2014 16:56
Quando la cronaca ci propone un omicidio familiare, l’aspetto forse più inquietante sono le interviste ai vicini di casa. Anche nei delitti più efferati, a fronte di killer assolutamente conclamati che magari hanno sterminato una intera famiglia per poi a loro volta uccidersi, il vicino di casa ha irrimediabilmente la solita risposta: «era una brava persona»; «era tutto tranquillo»; «non ci siamo mai accorti di nulla, sembrava una famiglia felice». Si crea una distanza siderale fra la percezione di una certa situazione rispetto alla sua possibile evoluzione violenta. Quando scatta l’allarme? Nell’immaginario comune la calma, la tranquillità non possono in alcun modo presupporre la violenza; è solo la tensione o il conflitto che la possono giustificare.
Da qui il senso di estraniazione del vicino di casa — «ma come, erano così tranquilli, calmi, tutto sembrava funzionare».
Le ricerche che sto portando avanti anche con il Cpp di Piacenza (Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti) vanno proprio in questa direzione, cercando di bucare la solita cappa di luoghi comuni.
L’idea forte su cui si basano è che la violenza non sia una conseguenza della tensione ma che viceversa la violenza, come la guerra siano una conseguenza dell’incapacità di gestire la tensione, anzi addirittura di una negazione del conflitto stesso. Ho chiamato questa caratteristica carenza conflittuale intendendo proprio l’incapacità di stare nella tensione conflittuale che viene vissuta come una minaccia insopportabile.
Questo tipo di deficit ha come esito che a fronte di contrasti e contrarietà sia relazionali che sociali le persone (ma anche i gruppi) si muovono nella logica eliminatoria per cercare di sopprimere la sorgente umana da cui questa divergenza proviene. Una soluzione semplificatoria che dal punto di vista psichico, come già negli anni Sessanta del Novecento aveva avvertito Franco Fornari in Psicanalisi della guerra, assume i contorni paranoici di voler eliminare la contrarietà con la violenza.
Saper stare nel conflitto in modo competente diventa pertanto una capacità indispensabile per l’apprendimento umano.
Se a bruciapelo ci venisse chiesto «è meglio saper affrontare i conflitti o è meglio saperli evitare?» il 99% risponderebbe che è meglio saperli affrontare. Peccato avvenga il contrario!
Quali sono i motivi per cui una competenza così importante come quella di litigare bene appare tanto lontana dagli automatismi educativi e culturali? Le ragioni sono sostanzialmente due: l’alienazione semantica e quella infantile.
Le parole conflitto, guerra e violenza da sempre, vengono usate specie nelle lingue latine come sinonimi. Purtroppo in questi anni ho potuto constatare che la sovrapposizione tra questi concetti è peggiorata. Una certa cultura mediatica da un lato, e una certa confusione semantica diffusa nel parlato comune, continuano a ritenere la violenza semplicemente un conflitto più intenso, e il conflitto semplicemente una violenza più leggera. Anzi direi di più: nei comunicati giornalistici è estremamente diffuso l’uso promiscuo dei due termini, al punto che si inizia a parlare della guerra in Siria e si prosegue con la massima naturalezza usando il termine «conflitto» come se si trattasse semplicemente di un sinonimo.
Un esempio tra i tanti: «La guerra in Siria si fa sempre più intensa. Anche oggi sono stati bombardati alcuni quartieri di Damasco provocando altri morti, decine se non centinaia. Pare che pure diversi bambini siano stati colpiti e uccisi. Il conflitto non si attenua anzi più passano i mesi e più la sua crudeltà si fa efferata e priva di inibizioni». In questa cronaca giornalistica, presa a caso tra le tante, su uno dei fronti più sanguinari dei nostri giorni, l’autore non sembra farsi particolari scrupoli nell’utilizzare le parole «guerra» e «conflitto» come sinonimi. Mi chiedo però: chi scrive questi articoli si accorge che, con il termine conflitto, sta usando la stessa parola che si usa durante le riunioni condominiali per definire la divergenza di opinioni tra due abitanti dello stesso condominio in funzione di un progetto che per qualcuno costa troppo e per un altro troppo poco? O l’identico termine che si utilizza quando due colleghi sul lavoro si trovano agli antipodi, in contrasto su un piano di sviluppo aziendale, di marketing, o su una decisione da assumere in riferimento al lavoro stesso? E anche la stessa identica parola che si utilizza nelle relazioni critiche con i propri figli? Tra le dinamiche che si scatenano tra due persone che si trovano a vivere una difficoltà relazionale e quello che sta accadendo nella guerra in Siria di differenza ne passa. Si finisce così col produrre un profondo senso di impotenza rispetto alla possibilità di poter imparare a gestire i propri conflitti.
Se nell’uso delle parole la confusione regna sovrana, dai bambini può venire quella spinta per imboccare finalmente una nuova strada. Da più di 30 anni la psicologia dell’età evolutiva sta segnalando l’estrema capacità dei bambini nei primi 6, 7 anni di vita ad affrontare i propri litigi in una logica di accordo e di ricomposizione. Sono sia ricerche specifiche sia osservazioni più generali sulla natura infantile. I bambini nei primi anni di vita usano un pensiero molto contingente e hanno la necessità, se non sono sviati dagli adulti, di giocare con i loro coetanei e di non perdere i piccoli compagni delle loro avventure. Per cui è molto raro che rinuncino a giocare con un amico per il rancore generato da un litigio. Varie ricerche hanno dimostrato la quantità davvero straordinaria di conflitti che i bambini in un ora possono accumulare e che vengono gestiti in una logica di accordo spontaneo. A fronte di questa constatazione permane un vero e proprio tabù pedagogico nelle nostre culture educative, ossia l’idea che occorra insegnare la giustizia ai bambini. È un’idea piuttosto originale perché il concetto di giustizia adulta è lontanissima da un concetto di giustizia infantile e non c’è nessuna possibilità di sovrapporla, non solo, è quantomeno inopportuno proprio per consentire ai bambini di farsi le loro esperienze e di imparare dalle loro interazioni spontanee. Questo tabù pedagogico si è espresso nella logica della ricerca del colpevole attraverso le classiche domanda adulte «chi è stato?», «chi ha incominciato?», «chi ha ragione?», ecc. Dalla notte dei tempi questo interrogatorio appartiene all’infanzia di tutte le generazioni. L’aspetto tragico è che il bambino spegne in questo modo la sua capacità naturale di accordarsi con i coetanei per adeguarsi alla colpevolizzazione imposta e sopprimere le sue competenze.
Con Caterina di Chio due anni fa abbiamo realizzato a Torino, nelle scuole dell’infanzia e elementari, una ricerca che ha coinvolto 466 alunni, verificando il loro comportamento nei litigi prima e dopo la somministrazione alle loro insegnanti del metodo maieutico da me ideato Litigare bene. I<CW-11> risultati ottenuti hanno riconosciuto come i bambini siano in grado di accordarsi se posti nelle condizioni di potersi parlare. Il metodo infatti insiste su questa dimensione, se si vuole paradossale, ossia che nel litigio infantile non bisogna sopprimere il dibattito con interventi tipo «adesso basta, smettetela, tacete, dovete volervi bene, fate la pace», mentre è fondamentale che ogni bambino possa comunicare all’altro la propria versione dei fatti con l’adulto che resta in una posizione neutrale e favorisce semplicemente il confronto.
La sperimentazione ha rivelato come nelle classi dove il metodo era stato applicato, i bambini sia dell’infanzia che delle elementari miglioravano di tre volte le propria capacità di accordarsi. Questo è proprio l’obiettivo che il metodo si propone, non di spegnere il litigio infantile su cui i bambini stessi appaiono particolarmente competenti, quanto di dargli la possibilità di viverlo nella logica della ricomposizione creativa, ossia del continuare a giocare con i propri coetanei.
Come non ha senso confondere guerra e conflitto così appare insensato anche cercare presunti colpevoli nei litigi infantili se non addirittura bambini violenti come fanno certi teorici del bullismo.
Le nostre ricerche in atto sulla competenza conflittuale si pongono l’obiettivo di aprire un nuovo capitolo su questi versanti delle relazioni umane, un capitolo dove lo sviluppo della capacità di vivere le perturbazioni e contrarietà interpersonali diventino una fonte di apprendimento e non un’angoscia mortificante che spegne la possibilità stessa di vedere al di là del proprio fastidio.
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