Il decalogo del buon conflitto al Festival della Mente

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Quando la cro­naca ci pro­pone un omi­ci­dio fami­liare, l’aspetto forse più inquie­tante sono le inter­vi­ste ai vicini di casa. Anche nei delitti più effe­rati, a fronte di kil­ler asso­lu­ta­mente con­cla­mati che magari hanno ster­mi­nato una intera fami­glia per poi a loro volta ucci­dersi, il vicino di casa ha irri­me­dia­bil­mente la solita rispo­sta: «era una brava per­sona»; «era tutto tran­quillo»; «non ci siamo mai accorti di nulla, sem­brava una fami­glia felice». Si crea una distanza side­rale fra la per­ce­zione di una certa situa­zione rispetto alla sua pos­si­bile evo­lu­zione vio­lenta. Quando scatta l’allarme? Nell’immaginario comune la calma, la tran­quil­lità non pos­sono in alcun modo pre­sup­porre la vio­lenza; è solo la ten­sione o il con­flitto che la pos­sono giu­sti­fi­care.
Da qui il senso di estra­nia­zione del vicino di casa — «ma come, erano così tran­quilli, calmi, tutto sem­brava fun­zio­nare».
Le ricer­che che sto por­tando avanti anche con il Cpp di Pia­cenza (Cen­tro psi­co­pe­da­go­gico per l’educazione e la gestione dei con­flitti) vanno pro­prio in que­sta dire­zione, cer­cando di bucare la solita cappa di luo­ghi comuni.
L’idea forte su cui si basano è che la vio­lenza non sia una con­se­guenza della ten­sione ma che vice­versa la vio­lenza, come la guerra siano una con­se­guenza dell’incapacità di gestire la ten­sione, anzi addi­rit­tura di una nega­zione del con­flitto stesso. Ho chia­mato que­sta carat­te­ri­stica carenza con­flit­tuale inten­dendo pro­prio l’incapacità di stare nella ten­sione con­flit­tuale che viene vis­suta come una minac­cia insop­por­ta­bile.
Que­sto tipo di defi­cit ha come esito che a fronte di con­tra­sti e con­tra­rietà sia rela­zio­nali che sociali le per­sone (ma anche i gruppi) si muo­vono nella logica eli­mi­na­to­ria per cer­care di sop­pri­mere la sor­gente umana da cui que­sta diver­genza pro­viene. Una solu­zione sem­pli­fi­ca­to­ria che dal punto di vista psi­chico, come già negli anni Ses­santa del Nove­cento aveva avver­tito Franco For­nari in Psi­ca­na­lisi della guerra, assume i con­torni para­noici di voler eli­mi­nare la con­tra­rietà con la violenza.

Una sovrap­po­si­zione mediatica

Saper stare nel con­flitto in modo com­pe­tente diventa per­tanto una capa­cità indi­spen­sa­bile per l’apprendimento umano.
Se a bru­cia­pelo ci venisse chie­sto «è meglio saper affron­tare i con­flitti o è meglio saperli evi­tare?» il 99% rispon­de­rebbe che è meglio saperli affron­tare. Pec­cato avvenga il con­tra­rio!
Quali sono i motivi per cui una com­pe­tenza così impor­tante come quella di liti­gare bene appare tanto lon­tana dagli auto­ma­ti­smi edu­ca­tivi e cul­tu­rali? Le ragioni sono sostan­zial­mente due: l’alienazione seman­tica e quella infan­tile.
Le parole con­flitto, guerra e vio­lenza da sem­pre, ven­gono usate spe­cie nelle lin­gue latine come sino­nimi. Pur­troppo in que­sti anni ho potuto con­sta­tare che la sovrap­po­si­zione tra que­sti con­cetti è peg­gio­rata. Una certa cul­tura media­tica da un lato, e una certa con­fu­sione seman­tica dif­fusa nel par­lato comune, con­ti­nuano a rite­nere la vio­lenza sem­pli­ce­mente un con­flitto più intenso, e il con­flitto sem­pli­ce­mente una vio­lenza più leg­gera. Anzi direi di più: nei comu­ni­cati gior­na­li­stici è estre­ma­mente dif­fuso l’uso pro­mi­scuo dei due ter­mini, al punto che si ini­zia a par­lare della guerra in Siria e si pro­se­gue con la mas­sima natu­ra­lezza usando il ter­mine «con­flitto» come se si trat­tasse sem­pli­ce­mente di un sino­nimo.
Un esem­pio tra i tanti: «La guerra in Siria si fa sem­pre più intensa. Anche oggi sono stati bom­bar­dati alcuni quar­tieri di Dama­sco pro­vo­cando altri morti, decine se non cen­ti­naia. Pare che pure diversi bam­bini siano stati col­piti e uccisi. Il con­flitto non si atte­nua anzi più pas­sano i mesi e più la sua cru­deltà si fa effe­rata e priva di ini­bi­zioni». In que­sta cro­naca gior­na­li­stica, presa a caso tra le tante, su uno dei fronti più san­gui­nari dei nostri giorni, l’autore non sem­bra farsi par­ti­co­lari scru­poli nell’utilizzare le parole «guerra» e «con­flitto» come sino­nimi. Mi chiedo però: chi scrive que­sti arti­coli si accorge che, con il ter­mine con­flitto, sta usando la stessa parola che si usa durante le riu­nioni con­do­mi­niali per defi­nire la diver­genza di opi­nioni tra due abi­tanti dello stesso con­do­mi­nio in fun­zione di un pro­getto che per qual­cuno costa troppo e per un altro troppo poco? O l’identico ter­mine che si uti­lizza quando due col­le­ghi sul lavoro si tro­vano agli anti­podi, in con­tra­sto su un piano di svi­luppo azien­dale, di mar­ke­ting, o su una deci­sione da assu­mere in rife­ri­mento al lavoro stesso? E anche la stessa iden­tica parola che si uti­lizza nelle rela­zioni cri­ti­che con i pro­pri figli? Tra le dina­mi­che che si sca­te­nano tra due per­sone che si tro­vano a vivere una dif­fi­coltà rela­zio­nale e quello che sta acca­dendo nella guerra in Siria di dif­fe­renza ne passa. Si fini­sce così col pro­durre un pro­fondo senso di impo­tenza rispetto alla pos­si­bi­lità di poter impa­rare a gestire i pro­pri conflitti.

I bam­bini sanno liti­gare bene

Se nell’uso delle parole la con­fu­sione regna sovrana, dai bam­bini può venire quella spinta per imboc­care final­mente una nuova strada. Da più di 30 anni la psi­co­lo­gia dell’età evo­lu­tiva sta segna­lando l’estrema capa­cità dei bam­bini nei primi 6, 7 anni di vita ad affron­tare i pro­pri litigi in una logica di accordo e di ricom­po­si­zione. Sono sia ricer­che spe­ci­fi­che sia osser­va­zioni più gene­rali sulla natura infan­tile. I bam­bini nei primi anni di vita usano un pen­siero molto con­tin­gente e hanno la neces­sità, se non sono sviati dagli adulti, di gio­care con i loro coe­ta­nei e di non per­dere i pic­coli com­pa­gni delle loro avven­ture. Per cui è molto raro che rinun­cino a gio­care con un amico per il ran­core gene­rato da un liti­gio. Varie ricer­che hanno dimo­strato la quan­tità dav­vero straor­di­na­ria di con­flitti che i bam­bini in un ora pos­sono accu­mu­lare e che ven­gono gestiti in una logica di accordo spon­ta­neo. A fronte di que­sta con­sta­ta­zione per­mane un vero e pro­prio tabù peda­go­gico nelle nostre cul­ture edu­ca­tive, ossia l’idea che occorra inse­gnare la giu­sti­zia ai bam­bini. È un’idea piut­to­sto ori­gi­nale per­ché il con­cetto di giu­sti­zia adulta è lon­ta­nis­sima da un con­cetto di giu­sti­zia infan­tile e non c’è nes­suna pos­si­bi­lità di sovrap­porla, non solo, è quan­to­meno inop­por­tuno pro­prio per con­sen­tire ai bam­bini di farsi le loro espe­rienze e di impa­rare dalle loro inte­ra­zioni spon­ta­nee. Que­sto tabù peda­go­gico si è espresso nella logica della ricerca del col­pe­vole attra­verso le clas­si­che domanda adulte «chi è stato?», «chi ha inco­min­ciato?», «chi ha ragione?», ecc. Dalla notte dei tempi que­sto inter­ro­ga­to­rio appar­tiene all’infanzia di tutte le gene­ra­zioni. L’aspetto tra­gico è che il bam­bino spe­gne in que­sto modo la sua capa­cità natu­rale di accor­darsi con i coe­ta­nei per ade­guarsi alla col­pe­vo­liz­za­zione impo­sta e sop­pri­mere le sue com­pe­tenze.
Con Cate­rina di Chio due anni fa abbiamo rea­liz­zato a Torino, nelle scuole dell’infanzia e ele­men­tari, una ricerca che ha coin­volto 466 alunni, veri­fi­cando il loro com­por­ta­mento nei litigi prima e dopo la som­mi­ni­stra­zione alle loro inse­gnanti del metodo maieu­tico da me ideato Liti­gare bene. I<CW-11> risul­tati otte­nuti hanno rico­no­sciuto come i bam­bini siano in grado di accor­darsi se posti nelle con­di­zioni di potersi par­lare. Il metodo infatti insi­ste su que­sta dimen­sione, se si vuole para­dos­sale, ossia che nel liti­gio infan­tile non biso­gna sop­pri­mere il dibat­tito con inter­venti tipo «adesso basta, smet­te­tela, tacete, dovete volervi bene, fate la pace», men­tre è fon­da­men­tale che ogni bam­bino possa comu­ni­care all’altro la pro­pria ver­sione dei fatti con l’adulto che resta in una posi­zione neu­trale e favo­ri­sce sem­pli­ce­mente il confronto.

Alla ricerca del colpevole

La spe­ri­men­ta­zione ha rive­lato come nelle classi dove il metodo era stato appli­cato, i bam­bini sia dell’infanzia che delle ele­men­tari miglio­ra­vano di tre volte le pro­pria capa­cità di accor­darsi. Que­sto è pro­prio l’obiettivo che il metodo si pro­pone, non di spe­gnere il liti­gio infan­tile su cui i bam­bini stessi appa­iono par­ti­co­lar­mente com­pe­tenti, quanto di dar­gli la pos­si­bi­lità di viverlo nella logica della ricom­po­si­zione crea­tiva, ossia del con­ti­nuare a gio­care con i pro­pri coe­ta­nei.
Come non ha senso con­fon­dere guerra e con­flitto così appare insen­sato anche cer­care pre­sunti col­pe­voli nei litigi infan­tili se non addi­rit­tura bam­bini vio­lenti come fanno certi teo­rici del bul­li­smo.
Le nostre ricer­che in atto sulla com­pe­tenza con­flit­tuale si pon­gono l’obiettivo di aprire un nuovo capi­tolo su que­sti ver­santi delle rela­zioni umane, un capi­tolo dove lo svi­luppo della capa­cità di vivere le per­tur­ba­zioni e con­tra­rietà inter­per­so­nali diven­tino una fonte di appren­di­mento e non un’angoscia mor­ti­fi­cante che spe­gne la pos­si­bi­lità stessa di vedere al di là del pro­prio fastidio.


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