La corsa a salvare Amerli stremata dall’assedio dell’Is
ERBIL. LA NOTIZIA di ieri non è quella dei tre attentati che hanno insanguinato Kirkuk, con almeno 22 morti e 132 feriti. Esplosioni, autobombe, attentatori suicidi sono in un conto terribile quanto ordinario.
LA NOTIZIA di ieri e di oggi è il cerchio che si stringe attorno agli sventurati di Amerli. Ci si chiede se, nell’agitazione che prende d’improvviso le grandi istituzioni intervenga più la trepidazione per le altrui vite minacciate o la preoccupazione per scelte troppo esposte. Ieri, dopo più di due mesi di assedio spietato di 17 mila turcomanni sciiti della città di Amerli, c’è stato un soprassalto. Nella preghiera del venerdì a Najaf il Grande Ayatollah sciita Ali al-Sistani aveva gridato al soccorso. Il rappresentante speciale di Ban Ki-Moon a Bagdad, Nikolai Mladenov, gli ha fatto eco — «situazione disperata… massacro incombente… tragedia… indicibile sofferenza…». A Erbil erano in corso riunioni concitate fra il governo curdo e i capi delle forze armate di Bagdad — benché la sola aviazione federale sia in campo per Amerli, nella misura di due elicotteri. Il responsabile degli esteri britannico, Hammond, ha detto di pensare a unirsi a un «impegno internazionale, in linea di principio » e di starne «discutendo con gli alleati»; e così via. Ad Amerli non hanno più acqua, se non quella di un limaccioso fiumiciattolo, né elettricità, cibo e farmaci. Ci sono uomini armati, ma di vecchi kalashnikov, contro le potenti e sofisticate attrezzature di cui dispongono le bande del califfato, che bombardano la città con colpi di mortaio. I due elicotteri lasciano cadere viveri e acqua, ma i lanci imprecisi finiscono spesso nelle mani del nemico.
Tutto ciò è noto da molti giorni. È famoso il nome del medico della Mezzaluna Rossa, Ali Albayati, le sue implorazioni di aiuto, le notizie sui bambini che mangiano qualcosa ogni tre giorni, si ammalano e muoiono di dissenteria, le amare considerazioni sugli americani intervenuti a proteggere gli yazidi… Non è meraviglioso, che ci sia una gente spinta a invidiare la sorte degli yazidi? Un altro nome di medico ricorre ormai quotidianamente nelle nostre pagine, quello di Marzio Babille, triestino, responsabile dell’Unicef per l’Iraq e pro tempore delle Nazioni Unite. Da molti giorni Babille ha avvertito tutte
le autorità competenti, dai governanti di Bagdad al governo curdo, e discretamente i responsabili dei paesi europei e degli Stati Uniti, della propria personale disponibilità — di più, del proprio strenuo desiderio — a recarsi ad Amerli, per portarvi aiuti più consistenti, medici soprattutto, e per organizzare l’evacuazione di donne e bambini. Ciascuna a suo modo, le autorità competenti hanno finora tergiversato, perché trovano troppo arrischiato il tentativo, o per la diffidenza e lo stallo reciproci, e chissà perché ancora. Sembrano segnare il passo, le grandi istituzioni e autorità, fra la reticenza a esporsi, e la preoccupazione di vedersi addossare la responsabilità della tragedia una volta che si sia compiuta.
Amerli si trova a sud di Kirkuk e a est di Tikrit. Lo scorso giugno, davanti all’avanzata jihadista nella piana di Ninive, nord dell’Iraq, molti turcomanni sciiti dovettero fuggire in fretta e furia, e si diressero verso la regione a maggioranza sciita, nel meridione del Paese, in particolare a Karbala e Najaf. L’Is si è impadronito dei villaggi circostanti, incontrando una resistenza strenua ma impari, e contando comunque sul tempo, dal momento che acqua e vie d’accesso sono tagliate. A differenza della maggioranza dei loro connazionali, i turcomanni di Amerli sono sciiti, dunque doppia minoranza nel nord dell’Iraq, ciò che spiega l’accanimento dei jihadisti e segna il loro destino di “apostati” dopo la caduta.
Dalla città sono riuscite a fuggire per vie traverse, o nei voli di ritorno degli elicotteri, circa 3 mila persone, ne restano 17 mila. Non ci sono vie d’accesso da terra, e anche gli elicotteri sono a rischio: quando volano, uno scarica e l’altro lo copre. Si avverte che fra le autorità federali — sulle quali il dimissionario-dimissionato Maliki continua ad esercitare una forte influenza — e quelle curde non c’è la cooperazione che sarebbe necessaria: ed è un eufemismo. Benché la resistenza dei curdi sia decisiva — sono loro i “piedi per terra” per conto di tutti gli altri — da Bagdad non si perde occasione per irritarli, come ieri, quando il vice primo ministro sunnita, Salih Mutlaq, ha voluto ammonire che «il territorio è attualmente in custodia temporanea nelle mani dei peshmerga, che dovranno restituire tutto».
In quella zona, i peshmerga sono soprattutto impegnati nella riconquista della città, considerata strategica, di Jalawla. In questa stessa zona sembra che accanto ai peshmerga stiano battendosi dei membri delle Guardie della rivoluzione iraniana, e si capisce che la conferma di una loro presenza mostrerebbe un quadro molto diverso, militarmente e politicamente. Ieri era anche corsa voce che truppe curde e federali preparino una grossa offensiva per spezzare l’accerchiamento dell’Is: ma c’è il timore che, com’è successo per due volte a Tikrit, il tentativo fallisca e lasci alla mercé degli assedianti la popolazione civile. La vigilia era stata resa più rovente dalla strage di sunniti compiuta da sciiti a Diyala, che ha sospeso anche la trattativa sul nuovo governo a Bagdad.
E allora, che cosa sarà della gente di Amerli? Gli americani potrebbero allentare l’assedio provvisoriamente con dei raid, ma sembrano sentirsi troppo impegnati su altri fronti. E l’Onu? E l’Europa? Gli europei non sono in grado di mettere in piedi nel giro di giorni, di ore, un’operazione — non importa il nome, militare, di polizia, di protezione civile, di decenza umana — che copra l’evacuazione di bambini e donne dalla morsa in cui sono stretti e li porti al sicuro, e se ne torni a casa? Tutti riconoscono che bisogna aprire e mettere in sicurezza un corridoio temporaneo attraverso cui i civili non combattenti vengano accompagnati fuori. È ragionevole immaginare che siano pronti ad accoglierli, dopo una prima assistenza, i centri di Karbala e Najaf. Hollande, Merkel, Renzi, Cameron, Tusk, Rasmussen, i loro ministri della difesa, i loro colleghi europei e della Nato, non sono disposti a farlo? Non sono in grado di farlo? Pensano che anche questo modo di «mettere i piedi per terra», e poi ritirarli su, sia una compromissione eccessiva? Il tentativo (fallito, purtroppo) di liberare gli ostaggi americani, come James Foley, in Siria, metteva i piedi per terra: ad Amerli, gli ostaggi sono migliaia, e la minaccia su di loro non è diversa. È assai dubbio, si obietterà, che l’Europa possa trasformare una renitenza alla leva inveterata addirittura in un pronto intervento. Forse sì: ma forse buttarsi mentre davanti ai propri occhi qualcuno annega è più naturale che iscriversi a un corso di bagnino. L’unica cosa che non bisognerà lasciar dire a nessuno, dopo , sarà di non aver visto che annegavano.
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