by redazione | 25 Agosto 2014 14:32
Se un Paese non ha un governo, se ha un Parlamento delegittimato, se produce un quinto della sua ricchezza potenziale, ebbene è un Paese finito. La Libia, oggi, è questo Paese.
Geografia del terrore
A Tripoli si combatte nei quartieri di periferia. A Bengasi sembra aver già vinto il Terrore. I nomi di città, un tempo citati per i commerci o per la memoria storica, ora vengono menzionati per identificare le milizie armate. Così oggi Misurata, 200 chilometri a est di Tripoli, non indica più il centro d’affari, la terra di appalti promettenti per le imprese italiane, come la Danieli, per esempio. Bensì il quartier generale della brigata formata anche da forze islamiste che si sta scontrando con i rivali storici di Zintan, 120 chilometri a sud ovest della capitale. Nell’agosto del 2011, piu o meno in questi giorni, i generali di Zintan e di Misurata passeggiavano insieme nella hall dell’Hotel Corinthia, a Tripoli, e spiegavano ai giornalisti come sarebbe stata la Libia del dopo Gheddafi, mentre i cecchini del Colonnello ancora tiravano sui finestroni del grande albergo.
L’illusione del dopo Gheddafi
Ma negli ultimi tre anni il Paese si è avvitato in una furibonda lotta politica, prima con gli strumenti democratici (almeno per approssimazione) delle elezioni, poi con i mortai e le granate. Anche qui, come in Tunisia, in Egitto, in Siria, la rivolta contro i dittatori, la «primavera araba», ha promosso le formazioni islamiche, nelle sue più varie declinazioni: dai moderati più vicini ai Fratelli musulmani, ai radicali Salafiti, fino alle falangi affiliate ad Al-Qaeda. Per un lungo periodo partiti laici e gruppi islamici sono riusciti a convivere, illudendo gli osservatori internazionali che la Libia si stesse avvicinando più al modello tunisino che a quello egiziano. Purtroppo avevano torto. Giorno dopo giorno l’ex colonia italiana somiglia sempre più alla Siria o, forse meglio, alla Somalia. Due anni di governi formalmente di unità nazionale non sono bastati per disarmare gli «eroi», i gruppi che si erano ribellati a Gheddafi. Anzi la cultura del kalashnikov si è diffusa in modo capillare, si potrebbe dire casa per casa. Nello stesso tempo l’opera dei primi ministri a Tripoli, Ali Zeidan, Al Thinni e da ultimo Ahmed Maiteeq, non è riuscita a trasformare la Libia padronale del Colonnello in uno Stato democratico. Un compito oggettivamente difficile se bisogna tenere insieme 140 tribù e soprattutto fare i conti con le ambizioni autoritarie dei rivoluzionari. Nel maggio scorso, mentre le tumultuose discussioni parlamentari si alternavano agli scontri a fuoco sempre più duri, il generale settantenne Khalifa Haftar si propone di ripetere a Tripoli quello che nel 2013 il suo pari grado Abd Al Fattah al Sisi aveva fatto al Cairo. In breve: ristabilire l’ordine azzerando il fronte islamista, anche con la violenza se necessario e senza distinguere tra moderati e radicali. Da quel momento, di fatto, è iniziata una guerra civile elevata all’ennesima potenza. Haftar si è spostato nell’Est del Paese a Bengasi. L’islam politico e militare ha reagito, mobilitandosi in modo diverso: a est la guida è stata assunta dagli estremisti di Ansar Al Shariah, e, secondo molti analisti, da cellule dipendenti da Al Qaeda; a ovest, gli islamisti di Fajr Libia («l’alba della Libia») si sono invece alleati con i reduci di Misurata. Sull’altro fronte, una parte dell’esercito nazionalista ha seguito il generale golpista e si è ricongiunta con un’altra brigata di «eroi», quella di Zintan, la città ai margini del deserto, dove è ancora prigioniero Saif Al Islam, uno dei figli di Gheddafi.
Schieramenti incrociati
E siamo a oggi, con due schieramenti difficili da decifrare. La chiave della confessione religiosa serve fino a un certo punto, i legami tribali anche. Sui pick up di Misurata, i guerriglieri islamici viaggiano insieme con i commercianti, i «borghesi» della città portuale. Da quest’altra parte i combattenti di Zintan, fieri oppositori del Colonnello, pur di fermare i rivali, sono arrivati ad allearsi con spezzoni della tribù Warfalla, la più armata e la più fedele al vecchio rais. A Tripoli gli scontri stanno dilagando nei quartieri, mentre l’aeroporto ora è nelle mani degli islamici e di Misurata. A Bengasi, invece, il generale Haftar ha ceduto a musulmani radicali di Ansar Al Shariah e non è chiaro se sia fuggito in Egitto, ospite di Al Sisi, suo modello e suo sostenitore.
Le attenzioni saudite
La crisi libica ha ormai scala internazionale. I portavoce di Misurata sostengono di essere stati colpiti dai caccia dell’Egitto e degli Emirati, mentre combattevano per espugnare lo scalo della capitale. Vero o falso che sia, resta il tema dei collegamenti e delle interferenze nell’area. Qui davvero si rivede lo schema all’opera in Egitto lo scorso agosto. Lì, al Cairo, Turchia e Qatar sostenevano Fratelli musulmani e salafiti. Qui, la Turchia appare più defilata, mentre il Qatar appoggia gli islamisti di Bengasi e di Tripoli. Attenzione, però, all’Arabia Saudita. Il Paese forse più conservatore della regione è profondamente ostile a ogni sommovimento. Il re Abdullah non esitò un instante a scaricare il presidente egiziano, il fedele musulmano Mohamed Morsi. E adesso, sostiene il fronte laico della Libia, almeno per il momento. Ancora una volta la religione non c’entra. Contano l’economia e il petrolio. L’Arabia Saudita, custode delle riserve di greggio più importante del pianeta, vuole intorno a sé stabilità politica che significa tranquillità sui mercati. Non poteva accettare un Egitto turbolento e non può tollerare una Libia nel caos. E su questo incrocio gli interessi con gli occidentali coinciderebbero. Ma finora nessuno si è presentato all’appuntamento. Nei fatti gli americani si sono defilati. Gli europei, anche. L’unica ambasciata aperta a Tripoli è quella italiana, guidata da Giuseppe Buccino Grimaldi. Tutte le compagnie occidentali hanno fatto i bagagli: la francese Total, la spagnola Repsol, l’americana ExxonMobil, la britannica British Petroleum, persino la cinese Cnpc. Resiste solo l’Eni, che continua a pompare i suoi 200-240 mila barili di greggio al giorno dai pozzi e dalle piattaforme offshore. Per l’Italia significa coprire circa il 27% del proprio fabbisogno (il 12,5% di gas).
Economia del greggio addio
Prima del 2011 i campi libici producevano in totale 1,6 milioni di barili al giorno: greggio a basso contenuto di zolfo, l’ideale per la trasformazione in benzina. Nel sottosuolo sono custodite riserve per 46 miliardi di barili, una cifra che vale il nono posto nella classifica mondiale (l’Arabia Saudita è leader con 262 miliardi). Il petrolio è il passato della Libia moderna. Non il presente. All’industria estrattiva si sta sostituendo il contrabbando di armi, di droghe e di migranti. Chiudono i pozzi, aprono i cantieri per sistemare alla meglio i barconi. Ottocento dollari per un passaggio fino a Lampedusa: si parte dalla costa a Ovest di Tripoli (Zuara, Sabrata, Zawiyah); o a est della capitale (Zliten). Ma neanche al più cinico dei contabili può sfuggire il collasso del Paese: l’oro nero rendeva dai 55 ai 70 miliardi di dollari all’anno. Il crimine su larga scala non arriva a 5-6 miliardi.
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