Argentina, doccia fredda su un paese sovrano
La crisi del debito argentino riporta l’orologio della storia indietro di 13 anni. A tutti gli effetti il default di Buenos Aires del 2001 fu l’ultimo di una serie di fallimenti sovrani cominciato al principio degli anni 1980. Essi furono in genere frutto di politiche di liberalizzazione dei movimenti di capitale e di stabilizzazione dei tassi di cambio volti a favorire prestiti esteri considerati essenziali per accelerare la crescita.
Boom effimeri sono spesso seguiti all’indebitamento estero culminati in drammatiche crisi e feroci politiche di austerità imposte dal Fondo monetario internazionale per assicurare la restituzione del debito, sebbene con tempi più lunghi. Notoriamente lo stesso Fmi benedì l’Argentina di Menem quando negli anni 1990 perseguì la crescita-via-indebitamento culminata nel default del 2001. Storie simili erano già accadute nel gold standard (famosa la crisi argentina del 1890), in cui i tassi di cambio erano tutti vincolati all’oro, ma meno percepito è che l’indebitamento estero dei paesi della periferia dell’eurozona verso quelli centrali ha anche radici simili: liberalizzare i movimenti di capitale e adottare una moneta unica coi paesi centrali per potersi indebitare a costi bassi. Lo stato di semi-default in cui siamo e le politiche della Troika li sperimentiamo sulla nostra pelle.
Fatto è che, mentre i paesi relativamente avanzati della periferia europea si cacciavano nella trappola della moneta unica e dell’indebitamento, dopo il 2001 nessun paese emergente vi è ricaduto. Controllo dei movimenti di capitale e tassi di cambio competitivi sono diventate le chiavi di volta delle politiche di questi paesi. L’ Argentina coraggiosamente pretese una rinegoziazione drastica del debito estero a cui nel 2005 aderì il 92,4% dei creditori. Il cambio competitivo e la domanda estera per i prodotti primari argentini fecero riprendere velocemente l’economia con importanti effetti redistributivi a favore dei lavoratori.
Naturalmente non tutto è oro quello che luccica, e l’economia argentina ha incontrato serie difficoltà negli anni recenti quando la domanda estera è calata. Il governo ha puntato molto su politiche industriali volte a ridurre la dipendenza dall’estero per esempio sul fronte energetico cercando di non comprimere la domanda interna.
La decisione del giudice statunitense Griesa di obbligare il pagamento integrale dei titoli del debito ai “fondi avvoltoio” che avevano fatto incetta dei titoli della minoranza che non aderì all’accordo è una doccia fredda su un paese che, comunque, aveva ripreso a marciare. Anche se la dimensione del pagamento (1,3 miliardi di dollari) non è cospicua, a cascata altri fondi avvoltoio potrebbero a quel punto reclamare la restituzione integrale (15 miliardi), e ancora a cascata anche quel 90% dei creditori che accettò un taglio dei 2/3 del credito, per cui la somma da pagare arriverebbe a 144 miliardi, qualcosa di inimmaginabile. Si comprende l’esitazione del governo argentino ad adempiere alla decisione del giudice Usa. Ma questo ha comportato l’impossibilità per il governo argentino di servire regolarmente il debito rinegoziato, e dunque il default. Tutto questo ha dell’assurdo, e persino il governo americano si era adoperato per evitare la sentenza Griesa.
Cosa accadrà ora? Per quanto nessun paese emergente intenda ripercorrere la via dell’indebitamento estero, l’ Argentina ha bisogno del mercato finanziario internazionale e, dopo una fase decennale di quarantena, lentamente questo si muoveva verso un nuovo accoglimento del paese latino-americano. L’ Argentina si vede costretta dunque a una autarchia finanziaria che può rivelarsi distruttiva per le sue prospettive di sviluppo. Più in generale si afferma il potere della finanza internazionale al di sopra dei diritti degli Stati e popoli sovrani. Questo è inaccettabile.
Al riguardo il Fmi, che qualche autocritica l’ha fatta (anche se, attenzione, il lupo perde notoriamente solo il pelo) ha da tempo avanzato l’idea di una legge fallimentare che si applichi ai debiti sovrani sul modello della bankrupt law americana che antepone il salvataggio dell’impresa ai diritti dei creditori, ripristinando dunque la priorità degli Stati e dei popoli nella rinegoziazione dei debiti. E se pensiamo alla situazione corrente del nostro paese, de te fabula narratur.
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