Alitalia, meglio gli arabi dei capitani coraggiosi
Dopo circa otto mesi di trattative anche molto confuse, come è nel nostro costume, è stata finalmente firmata l’intesa per l’ingresso degli arabi dell’Etihad nell’Alitalia con il 49% del capitale e per la presa in carico del controllo di fatto della compagnia da parte loro, checché ne dicano le regole sostanzialmente contrarie dell’Unione Europea.
Certo non possiamo non provare dispiacere per le sofferenze personali dei tanti lavoratori del gruppo, circa 1600, che si trovano ora di fronte a delle prospettive di lavoro molto incerte e, d’altro canto, per il fatto che si tratta dell’ennesima impresa che cade in mano allo straniero; d’altro canto, ci si permetta di esprimere anche sentimenti di contentezza per esserci finalmente liberati, almeno speriamo, di un’azienda che incancreniva con la sua pessima gestione — certo non era peraltro la sola — la vita economica del sistema delle imprese del nostro paese e questo da almeno una sessantina di anni, se non di più. Ma la mia memoria non arriva oltre.
Peraltro si presentano, di fronte alla possibile intesa finale, ancora una serie di problemi. Intanto sia permesso di esprimere almeno qualche dubbio sulla promessa da parte dell’esecutivo di arrivare a riallocare in qualche modo circa 1000 lavoratori in esubero; quella dei ragazzi del coro della compagine di governo, con l’eccezione forse di Padoan ( che però non è stato scelto in casa, ma ci è stato imposto da Francoforte, da Bruxelles e da Washington), costituisce a nostro parere una squadra di cui, anche se richiesti, non vorremmo utilizzare in alcun modo i servizi, neanche quelli più modesti. Ma forse ci sbagliamo.
D’altro canto, pende a Bruxelles un’azione promossa da Lufthansa e da British Airways contro l’accordo; le due compagnie, che comunque si sentono minacciate commercialmente dall’operazione, chiedono che si indaghi con attenzione sulla strategia di una società come la Etihad, che sta acquisendo una serie di vettori in Europa con delle operazioni al limite di quanto permesso dalle norme dell’Unione.
Infine, gli arabi devono ancora guardare fino in fondo nei conti del nostro vettore nazionale e forse qualche sorpresina spiacevole potrebbe ancora uscire fuori. Ma speriamo di no.
Dei famosi capitani coraggiosi dell’operazione di salvataggio avviata a suo tempo da Berlusconi molti si sono nel frattempo squagliati — essi non erano certo interessati alla navigazione d’altura, di cui non hanno mai peraltro conosciuto le regole.
Restano ovviamente nella compagine azionaria,trascinate per i capelli, le banche e questa è la seconda cosa di cui siamo almeno in parte contenti; esse in effetti hanno finalmente preso una bella batosta con l’operazione, dopo che erano state alla cabina di regia dell’operazione precedente, rendendola sciaguratamente possibile. Peraltro, la nostra gioia è frenata dalla consapevolezza che i problemi di bilancio degli istituti di credito alla fine cadono comunque, in un modo o nell’altro, sulle nostre spalle di clienti e di contribuenti.
Resta in gioco anche la famiglia Benetton, che, essendo essa l’azionista di riferimento di Fiumicino, è molto interessata alla vicenda.
Ritroviamo nel capitale anche le Poste, che hanno scoperto il modo di mettere a punto delle sinergie operative con il nuovo vettore e a trovare quindi, almeno ufficialmente, un loro tornaconto nell’operazione.
Che dire del piano strategico messo a punto dagli arabi? Con le nostre limitate conoscenze del settore del trasporto aereo, pensiamo comunque che esso sia sostanzialmente credibile e che fosse abbastanza difficile sperare di meglio. Si cambiano interamente le opzioni rispetto al piano frettolosamente preparato dai capitani coraggiosi con la geniale regia di Corrado Passera, si collega ora strettamente la compagnia italiana alla rete europea di Etihad, si punta operativamente soprattutto sui voli a lungo raggio.
Certo non mancheranno le difficoltà in un settore molto affollato e caratterizzato da una forte concorrenza, ma, d’altro canto, i nuovi padroni sembrano avere le risorse finanziarie e manageriali per andare avanti con una certa credibilità.
Aleggia comunque alla fine su questo accordo l’angoscia per il fatto che fra poco non resterà di proprietà italiana o con sede centrale in Italia quasi nessuna impresa grande e medio-grande. Il nostro affabile presidente del consiglio ha affermato in sostanza che siamo in un mercato aperto e libero e che il capitale straniero è il benvenuto da noi. In questo egli riecheggia, in particolare, dei discorsi analoghi fatti in passato dai primi ministri britannici, dalla Thatcher, da Blair, da Cameron.
Ma la differenza dell’Italia con l’Inghilterra è quella che certamente nel secondo paese molte imprese nazionali sono state acquisite da capitali esteri, ma, d’altra parte e contemporaneamente, molte imprese estere sono state comprate dal capitale britannico e che la partita si chiude quindi in quel caso per lo meno in parità.
Da noi è un poco diverso.
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