Alba di bonaccia sul trono di Zeus ma dietro la punta oggi si va a pesca di barracuda
IN UN posto fatto per funzionare di notte è fatale che si diventi nottambuli o si aboliscano gli orari. Ma stavolta è anche scesa la bonaccia; e un triestino abituato alla bora, con la bonaccia ti diventa inquieto, gli pare che il mondo smetta di girare. Gli vengono pensieri del tipo: “e se il Sole non sorgesse?”. A me è venuto in mente, questa notte verso le tre. Da bambino, mi ricordo, ci pensavo; e qui sul faro la vecchia insicurezza ritorna. Ma è un sentimento benedetto, perché ti obbliga a riti propiziatori per tener buona la natura. Magari un giorno, se non c’è vento, prima dell’alba vado ad accendere un fuoco per il Sole, sul promontorio d’Oriente.
Sento il Capitano che scende le scale per i controlli meteo, dunque manca poco alle cinque. La sera prima mi ha detto che poi non tornerà a dormire: il tempo di un caffè, e alla prima luce dev’essere fuori a tirare le reti della sera prima. Fuori c’è un silenzio tremendo, appena lo sciacquio della risacca. I gabbiani non volano, nell’aria c’è attesa, immobilità a foschia, tranne un leggero chiarore sul lato di un’invisibile Luna calante. Provo a riaddormentarmi, ma cado solo in un ebete letargo dei sensi, in mezzo a libri aperti e quaderni.
Poco prima delle sei mi scuotono due-tre colpi di scirocco. Apro le finestre, c’è odore di bruciato, di campi mangiati dalla siccità, ma carico dell’umido del mare. L’ho già sentita ad Algeri e a Lampedusa, quell’aria di erba combusta e polvere. Ma dura poco, in mezz’ora è di nuovo bonaccia e l’odore scompare. Non capisco dove va a parare questo cielo che non si dà pace. Il barometro è ai minimi, è presto maggio e la primavera non arriva.
Dalla finestra vedo il Capo che scende verso la barca tra nidi di gabbiani, gira oltre i ruderi di un’ex garitta, là dove la cresta dell’isola prende un nome che vuol dire più o meno “lucertola”, e scompare oltre il dosso. Va a fare da solo un lavoro per due, ma non gli ho chiesto di poterlo aiutare, gli sarei d’intralcio in quella sua barca di tre metri e mezzo. Il mare pullula di alici migranti, ma lui va a stanare il pesce stanziale, quello nobile di scoglio. Col cannocchiale vedo il suo guscio di noce che gira oltre il capo. Una scena siciliana, già vista ne “I Malavoglia” di Verga. Piove, ma il mare è fermo, almeno.
Il tempo di far colazione e il cielo cambia nuovamente, con un soffio a filo d’acqua. Dalle mie parti è la Bora che comincia a questo modo. Ma stavolta no, è Tramontana. Più costante, meno nervosa. Non scopa il mare, ma lo agita di creste schiumate e spruzzaglia. Non serpeggia: avanza con un fronte alto centinaia di metri e va
su con un crescendo regolare. Nel giro di mezz’ora il mare si popola di Nereidi in bianco. Una processione infinita che prende l’isola di tre quarti. Non so come farà a cavarsela il Capitano, anche se è sul lato riparato dell’isola. “Non c’è problema”, mi dice il suo assistente, fuori a pulire le reti. Il “vecchio” se la cava.
Davvero sono arrivato sull’isola appena in tempo. Il termometro è sceso a dieci gradi. Vedo uno dei gatti isolani, quello di pelo bianco e nero, appallottolato e immobile al riparo di un muretto. È uno di quei giorni che anche un’isola minima diventa terra incognita e ti vien voglia di ridurre il tuo habitat al faro stesso; del resto cosa esiste di meglio, nel raggio di cento miglia, di questo temporalesco trono di Zeus da cui tutto si vede. Mi intabarro ed esco per appollaiarmi come un condor sul lato Est della terrazza. Devo solo aspettare che il Capo sbuchi tra gli isolotti, dietro la coda del lucertolone.
Eccolo, è piccolissimo, tutto sotto costa per beccare meno vento. Punta sulla funicolare, a picco sotto il faro, si sbraccia per dar segnali, urla “Più basso!”, “Ancora!”. Il ragazzo manovra, teso a non commettere errori. La gabbia della teleferica scende, si arresta a filo d’acqua. L’uomo centodieci metri
in basso si afferra al cavo, butta uno, due sacchi nel cestone di ferro, poi molla per ricuperare gli altri pezzi, ma il vento lo allontana. Ecco, è di nuovo al timone, recupera terreno, riavvicina la funicolare marina. Per reggere al mare contrario è tutto un gioco di equilibrio, pazienza e piccoli colpi di motore.
Scendo a dargli una mano per tirare la barca in secca, almeno quello. Basta qualche robusta bracciata all’argano, un vecchio arnese carico di ruggine e bisunto di grasso nero. Si svuota la rete di quello che è rimasto. Acqua e gli ultimi pesci. Ridendo, il Capo mi mette in mano un barracuda di ottanta centimetri ancora mezzo vivo, poi si infila un’aragosta sotto l’ascella e corre alla baracca degli attrezzi per togliere la cerata e farsi la prima sigaretta. Si sdraia e fuma con un tale piacere che vien voglia di farlo anche a me, che non ho tirato una cicca in vita mia se non per finta.
Fame da lupi. Al faro l’assistente ha già infornato il pane e scaldato gli ossibuchi in umido. Tre piatti e stoviglie sul tavolo di marmo e via, veder mangiare quei due è uno spettacolo. Ti sazi solo con la vista. Il Capo è una scultura di bronzo, gomiti sul tavolo, come i contadini di una volta, come tutti
quelli che hanno lavorato di braccia e devono far riposare le spalle. La forchetta non la tiene, la impugna, e che diavolo. Il pane è fatto per essere spezzato, non tagliato col coltello sacrilego, e serve a tirar su il sugo, accidenti, non a restare graziosamente asciutto tra le mani.
Dopo il caffè è ora di ciabatte. Sento nel corridoio il passo strascicato del pescatore a fine giornata. Esprime una serie di segnali. La supremazia sul suo assistente, che non si permetterebbe mai, e infatti cammina felpato. L’essere a casa sua, anzi nel suo regno indiscusso. “Ho lavorato — dicono le babbucce — mi sono conquistato il diritto di stravaccarmi”. Ed è il preludio del sonno del pomeriggio, il più profondo, quello strappato al divano. Sonno di pescatore che crolla vestito sui cordami, senza pigiama né caffellatte né brioche.
3- continua
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