«Aerei egiziani e degli Emirati attaccano in Libia»

by redazione | 26 Agosto 2014 11:51

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GERUSALEMME —? L’Egitto emargina gli Stati Uniti nelle trattative per riportare la calma tra Israele e Hamas. Abdel Fattah al Sissi, il generale diventato presidente, rifiuta gli inviti a Washington. I suoi consiglieri militari scelgono di passare poche informazioni (e solo quelle che vogliono) agli americani. Così i diplomatici dell’Amministrazione si vendicano attraverso il New York Times e rivelano: i due bombardamenti in sette giorni che hanno colpito le basi islamiste in Libia sono una cooperazione tra l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. «Non ci hanno detto niente, anche noi siamo stati sorpresi».

Il Cairo avrebbe fornito le piste di lancio e i rifornimenti, Abu Dhabi i jet e i piloti, che formano una delle migliori aviazioni della regione (dopo quella israeliana) proprio grazie all’addestramento americano. I generali egiziani negano, sostengono che la versione passata al quotidiano sia la stessa fatta circolare dalle milizie fondamentaliste e «dai loro sostenitori stranieri». Sissi non nasconde di essere impegnato in una lotta contro gli estremisti islamici, con quelle che considera emanazioni dei Fratelli Musulmani, dichiarati fuorilegge nel Paese. Per fronteggiare (politicamente o militarmente) Hamas a Gaza, i gruppi libici, lo Stato Islamico tra Siria e Iraq, ha creato un blocco con gli Emirati e l’Arabia Saudita.
I funzionari americani fanno notare al New York Times che il Qatar (allineato con la Turchia) già rifornisce di armamenti le fazioni che hanno assaltato Tripoli. I bombardamenti in Libia — commentano — segnano il passaggio dalle guerre per procura che stanno scuotendo il Medio Oriente a coinvolgimenti diretti delle nazioni. In realtà l’Iran ha inviato in Siria i suoi consiglieri militari (e truppe con divise non identificabili), ha ordinato a Hezbollah di intervenire dal Libano per sostenere Bashar Assad. Il presidente siriano adesso si presenta all’Occidente come un possibile alleato contro i terroristi dello Stato Islamico, che Barack Obama considera una minaccia. «Non immediata», secondo il generale Martin Dempsey, alla guida degli Stati Maggiori riuniti. «Siamo pronti ad agire, ma per ora rappresentano una questione regionale», commenta. Lo ripetono i portavoce della Casa Bianca: «Il presidente non ha preso una decisione sui raid».
È il clan di Assad a vedere ormai le bandiere nere come un pericolo. Il regime ha perso il controllo della base area di Taqba, l’esercito irregolare del Califfo domina nella provincia di Raqqa. Per oltre diciotto mesi l’aviazione di Damasco ha risparmiato le basi dei fondamentalisti, il governo ha comprato petrolio da loro (finanziandoli), ha permesso che si rafforzassero a scapito dei gruppi ribelli più moderati. «Il regime è riuscito a portare l’Occidente nella situazione che aveva pianificato — scrive Frederic Hof del centro Rafik Hariri per il Medio Oriente — :l’opposizione è morta, lo Stato Islamico rappresenta un male più terribile di noi, non avete altra scelta che accettarci».
Così Wualid Muallem, il ministro degli Esteri siriano, ieri ha accolto con un «benvenuti» gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, se dovessero decidere di intervenire contro gli estremisti in una coalizione internazionale. L’invito di Muallem è ancora circondato di filo spinato. «Qualunque violazione della nostra sovranità fuori dalla cooperazione sarebbe considerata un’aggressione». Ovvero: niente bombardamenti o operazioni senza avvertirci. «Se il blitz per liberare James Foley (il giornalista rapito in Siria e decapitato dai carcerieri, ndr ) fosse stato organizzato con noi, avrebbe avuto successo», proclama Muallem, con cinismo e senza poterlo dimostrare.
Damasco teme che gli americani, una volta coinvolti, cerchino di imporre una soluzione alla irachena con Assad nella parte di Nouri Al Maliki, il primo ministro spinto a farsi da parte per provare a rilanciare un processo di pacificazione nazionale. È quello che provano a sostenere gli analisti: allearsi con il regime a questo punto non solo sarebbe immorale, ma anche inefficace perché le truppe non sembrano in grado di contrastare i miliziani dello Stato Islamico.
Davide Frattini

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