Addio al nemico N°1

by redazione | 23 Agosto 2014 17:46

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SEMPRE «cauto, indeciso, esitante » per natura, come lo descriveva il New Yorker, ma oggi soprattutto molto confuso .

IL presidente americano Obama ora medita la possibilità di bombardare i ribelli anti Assad in Siria appena un anno dopo aver progettato di fare il contrario e di bombardare Assad.
Tutto scorre troppo in fretta e sfugge di mano nelle rapide del Vicino Oriente dove i demoni di ieri, come Assad, divengono gli angeli, anche se sterminatori, di oggi. Sono bastati dodici mesi, la decomposizione dell’Iraq, l’espansione della bandiere nere dell’Is con il nome di Allah e la scoperta che ormai sono i tagliagole radicali a dominare l’insurrezione non più democratica in Siria per rovesciare la scacchiera e far dire al Capo di Stato Maggiore americano generale Martin Dempsey che per fermare l’Is occorre pensare anche «ad azioni militari in Siria». Quelle azioni militari, formula per dire «attacchi aerei», alle quali lo stesso generale a quattro stelle si era pubblicamente, e fermamente opposto nel 2013.
La metafora che si ascolta con più frequenza in queste giornate di confusione strategica e di disgusto morale a Washington è quella del «runaway train», del treno che corre in discesa senza più freni né conduttore. E nessuno è passeggero più sballottato di quell’uomo che era stato eletto trionfalmente nel 2008 per districare l’America dal rottamaio delle invasioni e delle occupazioni per «cambiare i regimi » e oggi si sente chiedere di rimettere le mani dentro quegli ingranaggi dai quali si era districato.
L’incubo, che ebbe uno delle massime espressioni nella infausta dottrina della «linea rossa», l’impiego di gas contro i ribelli anti-Assad in Siria, da non attraversare mai sotto pena di rappresaglie punitiva, riporta puntuale alla maledizione del «blowback», nel lessico dell’intelligence e della strategia, della vampa di ritorno delle fiamme appiccate per bruciare gli altri e che si rivoltano contro chi le ha accese. Gli strani «compagni di letto» aiutati e armati un giorno per battersi per procura contro il nemico del momento, si metamorfizzano nei diavoli del giorno dopo, dal caso più tragico, quello dei mujaheddin afgani armati in funzione antisovietica negli anni ‘80 e poi divenuti al Qaeda ai macellai di al Baghdadi, l’ideologo del nuovo califfato genocida, che Washington aveva coltivato contro l’espansione dei mussulmani Shia in Medio Oriente, finanziati e appoggiata dalle «canaglie» iraniane.
Nel «Grande Gioco» dove Barack Obama è impigliato, è quasi impossibile definire chi siano i giocatori principali, i doppiogiochisti, i finanziatori, gli alleati e i nemici. Dovunque i caccia bombardieri e i droni del generale Dempsey andassero a colpire avrebbero la certezza di distruggere nemici sostenuti segretamente da amici, o di colpire amici, facendo il gioco dei nemici. Nessuno è alla guida del treno che corre, non l’Arabia Saudita e il Qatar che si dice finanzino i terroristi dell’Is per fermare gli odiati Shia in Iraq e demolire Assad in Siria, non la Turchia, che detesta e teme un asse Shia fra Baghdad e Teheran ma teme ancora di più quei curdi che sono i soli a battersi davvero contro le Bande Nere di al Baghdadi.
Nel rovesciamento ormai quotidiano delle pedine, l’Iran «l’ex Stato Canaglia» sta neppure troppo segretamente collaborando con l’ex «Grande Satana» yankee per proteggere i fratelli Shia, fermare le Bande Nere e mantenere aperti i corridoi di collegamento con i propri satelliti come Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina. Ufficialmente i peggiori nemici, bollati come terroristi, degli Stati Uniti ma sostenuti dall’Iran che collabora con gli Stati Uniti. Da lontano, osserva tutto soddisfatto Vladimir Putin, alle prese con l’Ucraina che vorrebbe sfuggire al protettorato russo, e dunque ben lieto di fare la parte del saggio statista, quello che fermò i bombardamenti Usa sulla Siria con la proposta della distruzione dei gas.
Non c’è possibile azione o intervento che Obama possa contemplare con i propri consiglieri anch’essi confusi che non prometta un altro «blowback», un ritorno di fiamma. Il sostegno alla rivolta contro Assad, quando la ribellione appariva muoversi nel solco della «primavera araba», con finanziamenti e armi leggere, ma almeno non i micidiali missili portatili antiaereo Manpad che potrebbero essere usati per abbattere aerei civili, ha spalancato la strada all’Is che ha creato in Siria la propria base operativa, mini califfato dentro lo Stato ancora nominalmente controllato da Assad. Ma colpirli, significa individuare obiettivi precisi, fanno notare i comandi americani, scovare depositi, tagliare linee di rifornimento verso i compagni che avanzano in Iraq, ma senza davvero stroncare il flusso dei finanziamenti e del reclutamento, ormai esteso anche a criminali venuti da lontano, come «London John», il macellaio di Jim Foley.
Non c’è una strategia comune, un consenso solido fra White House, Dipartimento di Stato, Cia, Pentagono nella Washington dove vecchi falchi, residuati neocon, nuovi strateghi da intervista e talk show, incoraggiati dalle esitazioni di Obama offrono tante soluzioni quanti sono i problemi e tutte contraddittorie fra loro. La capriola strategica del generale Dempsey non ha trovato suggelli pubblici dal Comandante in Capo, da Obama, almeno non ancora.
Dal vecchio McCain, sempre pronto a bombardare da vecchio pilota di cacciabombardieri di Marina, al consigliere principale della Casa Bianca, McDonough, prossimo alle dimissioni per dissensi con il presidente, Obama ha già fatto sapere di essere ben conscio del fatto che sbaglierà, qualunque cosa egli decida di fare, o di non fare, oltre le punture di spillo di quelle 90 sortite aeree — in Desert Storm 1991 erano migliaia al giorno — contro l’Is per rallentare la marcia verso Baghdad.
«Ai presidenti viene sempre rinfacciato quello che hanno fatto, ma non quello che non hanno fatto», ha confidato a un suo collaboratore. C’è la traccia dell’amaro cinismo di ogni funzionario pubblico quale lui è, la tentazione di non far nulla e nascondere la pratica, mentre le ormai vicinissime elezioni di metà mandato, in novembre, quando il suo partito democratico perderà la maggioranza anche in Senato, oltre alla Camera, garantiscono la classica paralisi dell’ultimo biennio, il tempo dell’«anatra zoppa».
Due anni, sul treno lanciato senza freni, sono un’era geologica. Le immagini raccapriccianti si accavalleranno con altre ancor più atroci, fra l’impotenza terminale dell’Onu, le lezioncine dei «generali da poltrona», l’ininfluenza dell’Europa e il rimescolamento quotidiano di alleanze, odi, doppiogiochi, false bandiere e finti amici sul terreno, attorno a morti veri. Obama e la famiglia restano ancora barricati, per due giorni, per le loro vacanze sull’Atlantico, nelle antiche terre dei Kennedy fra Martha’s Vineyard e Hyannis, a meditare sulla inevitabile scoperta che ogni presidente americano sempre deve fare: che entrano alla Casa Bianca promettendo di cambiare il mondo, ma è sempre il mondo che cambia loro.

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