Stati Uniti d’Oriente
NEW YORK. MURRIETA , cittadina della California a 90 km da San Diego, è la capitale di un’emergenza- immigrazione: il boom degli immigrati bambini, in costante aumento dai paesi più poveri dell’America centrale. Lincoln, cittadina del Nebraska, è la capitale di una non-emergenza: l’aumento costante, ordinato, per nulla inquietante, della popolazione asiatica. A Lincoln i media locali dedicano un ritratto lusinghiero all’ufficiale Tu Tran della polizia locale. Vietnamita, e punto di riferimento di una comunità etnica tra le meglio integrate nella popolazione del Nebraska. Mentre le ultime ondate di arrivi dal Sud catalizzano l’attenzione e il dibattito politico, il Census Bureau federale che realizza i censimenti demografici rivela una realtà molto diversa: sono gli asiatici la componente più in crescita dell’immigrazione negli Stati Uniti. La loro rivoluzione silenziosa sta cambiando tutto: dalla geografia urbana alle gerarchie socio- economiche. Senza provocare resistenze, o quasi.
A Murrieta in California non passa giorno senza una manifestazione di protesta. Da una parte ci sono cittadini indignati che si oppongono all’arrivo dei torpedoni noleggiati dalla Border Patrol. Trasportano minorenni entrati clandestinamente dalla frontiera col Messico. Secondo quei manifestanti, troppi bambini e ragazzi dopo un breve colloquio coi magistrati riescono a rimanere negli Stati Uniti sfruttando leggi permissive sul diritto di asilo. Dall’altra parte dei torpedoni manifestano cittadini altrettanto indignati, contrari alle deportazioni dei ragazzini che non superano l’esame coll’Immigration Office e il giudice. Barack Obama ha dovuto occuparsene anche nel bel mezzo del ponte del 4 luglio, Independence Day. Le leggi sulla regolarizzazione dei clandestini sono prese in ostaggio dal Congresso, nell’estenuante
ostruzionismo dei repubblicani maggioritari alla Camera.
Ma la realtà dei flussi migratori è ben diversa dalle apparenze. Uno studio appena pubblicato dal Census Bureau ridimensiona lo “tsunami dal Centroamerica”.
Per il secondo anno consecutivo, rivela l’istituto, gli arrivi di asiatici sono stati superiori a quelli degli ispanici. In 12 mesi sono entrati negli Stati Uniti 338.000 asiatici, con un aumento del 68% rispetto alla recessione del 2008 2009, quando la drammatica crisi del mercato del lavoro aveva frenato anche gli arrivi dall’estero. Negli stessi 12 mesi gli ispanici in arrivo sono stati un numero inferiore, 244.000, e per di più in forte calo (meno 60%) rispetto al picco massimo degli ingressi che avvenne nel 2005-2006. Se l’autorevole studioso di geostrategia Samuel Huffington pochi anni prima di morire lanciava l’allarme per una “ispanizzazione strisciante” della società americana, ed altri evocavano scenari apocalittici di una “Mexifornia” (il Messico che ingoia la California), il corso della storia sta deviando in un’altra direzione. È l’America dagli occhi a mandorla, il futuro che prevale. Anche perché tra i due flussi migratori c’è una differenza qualitativa cruciale. La spiega il demografo William Frey della Brookings Institution di Washington su Usa Today: «I mestieri che vengono svolti dagli immigrati ispanici sono per lo più le attività manuali meno remunerate, dalla ristorazione all’edilizia. Attività che hanno ricevuto i colpi più duri durante la recessione». Inoltre, checché ne dica la destra che accusa Obama di lassismo, la sorveglianza della Border Patrol (polizia di frontiera) lungo il confine con il Messico è andata intensificandosi. Negli arrivi dall’Asia, sottolinea Frey, è più consistente invece la quota degli immigrati legali, quelli che hanno un visto regolare. E in ogni caso i due flussi migratori si dirigono verso destinazioni diverse. Gli ispanici finiscono in maggioranza nelle fasce sociali più basse. Gli asiatici-americani hanno un reddito medio superiore agli stessi bianchi, spesso fin dalla prima generazione. Un terzo delle imprese tecnologiche della Silicon Valley sono possedute e dirette da imprenditori e top manager di origine asiatica: cinesi, indiani, coreani.
Il cambiamento del “panorama” etnico e demografico accelera, per effetto dell’invecchiamento del ceppo bianco di origine europea. Le generazioni dei baby-boomer (nati fra il 1945 e il 1965), le più numerose della storia, si avviano gradualmente verso l’età pensionabile. I loro figli sono generazioni “sottili”, tant’è che l’età mediana della popolazione Usa è salita di 2,3 anni nell’ultimo decennio. A compensare questa transizione demografica ci sono gli arrivi degli stranieri.
Gli ispanici restano tuttora la prima componente dopo i bianchi cosiddetti “caucasici” (di provenienza storica dall’Europa): 54 milioni nell’ultimo censimento.
Gli asiatici per adesso non sono neppure la metà, hanno appena raggiunto la soglia dei 20 milioni. Ma crescono del 2,9% all’anno, e nei trend di lungo periodo sono destinati ad agganciare e superare altre minoranze. Gli ispanici tendono a crescere soprattutto per effetto delle nascite locali (i figli di chi è già immigrato); mentre per gli asiatici la componente più dinamica della crescita viene ancora dall’immigrazione. Viste le qualifiche professionali di cui sono spesso portatori, e il dislivello d’istruzione in loro favore (nelle classifiche Ocse-Pisa i licei di Seul, Shanghai e Singapore stravincono la gara con quelli americani), per gli asiatici è più facile ottenere l’ambito visto H1-B che le aziende hitech procurano agli ingegneri informatici, e poi la Green Card. Il 74% degli adulti asiatici sono nati all’estero, questo conferma che si tratta di una popolazione recente, giovane, dove i flussi di arrivo prevalgono di gran lunga sulle nascite locali.
Per lo stesso motivo, i cinesi, vietnamiti, indiani e filippini, in media sono un po’ meno giovani dei messicani, ecuadoregni, salvadoregni, guatemaltechi. L’asiatico medio ha 36 anni contro i 28 del latinoamericano. Questo perché nella prima categoria ci sono tanti che arrivano in cerca di lavoro al termine dei loro studi.
In numeri assoluti la California ha la più vasta popolazione ispanica con 15 milioni, seguita dagli asiatici che sono già più di 6 milioni e soprattutto aumentano di circa 150.000 ogni anno. Le Hawaii hanno una maggioranza asiatica. Perfino all’interno delle singole città il mix etnico imprime dei segni paesaggistici e culturali. Little Italy a Manhattan è ormai un’enclave assediata da Chinatown che l’abbraccia e la sommerge; avanza la selva delle insegne al neon con caratteri in mandarino e cantonese. A San Francisco la Chinatown storica continua ad attirare i turisti, ma sta stretta alle ondate dei nuovi immigrati asiatici, che si dirigono verso il vasto quartiere del Sunset o cittadine-satellite come Fremont. Dove meno te l’aspetti accadono metamorfosi come quella del Nebraska, lo Stato che dà il titolo al film di Alexander Payne premiato a Cannes nel 2013: una metafora dell’America profonda, la provincia bianca, tradizionalista e ottusa. Non certo una terra dalle tradizioni cosmopoliti paragonabili a quelle delle metropoli portuali sulle due coste. Eppure il Nebraska sta cambiando fisionomia, a furia di ondate fresche di asiatici. Cominciarono i vietnamiti fin dal 1975 (fuga da Saigon con il ritiro dell’esercito americani; seguita dalla crisi dei boat people; oggi ce ne sono 1,7 milioni su tutto il territorio degli Stati Uniti). Poi nel Nebraska sono arrivati i birmani e perfino gli immigrati del Bhutan. I residenti del Nebraska con origini asiatiche sono aumentati del 70%. E l’ufficiale di polizia Tran ha il suo daffare come interprete e uomo di relazioni pubbliche con la comunità dei 7.000 connazionali.
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