by redazione | 2 Luglio 2014 10:35
ROMA . Perdere 35 mila euro solo perché si è nati nel decennio sbagliato. E qui la recente crisi non c’entra nulla. Il problema del lavoro in Italia — meno posti, meno pagati, meno diritti — è atavico. O meglio «strutturale ». Così, capita che i trentenni laureati di oggi abbiano dovuto rinunciare in partenza e senza colpe a 35 mila euro appunto, rispetto agli attuali over 45. Colpa dei salari di ingresso, scivolati verso il basso del 20% tra chi è nato tra il 1975 e il 1979 e chi ha avuto la fortuna di venire alla luce nei sixties ( 1965-1969). Ma anche dell’impossibilità di recuperare quel gap nei primi sei anni di carriera. È andata meglio ai diplomati, paradossalmente. Con uno spread “solo” del 5%.
È la «meglio gioventù» a pagare i conti più salati di un Paese fermo e moribondo. «La risorsa migliore, quella sulla quale si è investito di più in termini di spesa pubblica, soprattutto spesa per istruzione, e che dovrebbe rappresentare il motore della crescita economica nei prossimi decenni», scrivono Paolo Naticchioni (Roma Tre), Michele Raitano e Claudia Vittori (La Sapienza), i ricercatori autori di un paper pubblicato da Iza, l’istituto internazionale di studi sul mercato del lavoro. Le generazioni più recenti — è il focus di questa ricerca — quelle entrate nel mondo della professione negli anni Novanta e Duemila hanno ricevuto stipendi più bassi rispetto alle generazioni precedenti, soprattutto i laureati (in media, quello d’ingresso pari a 17.750 euro). E nei sei anni successivi questo “ammanco” non è stato compensato da una dinamica salariale più veloce. Così le perdite cumulate sono arrivate a 35 mila euro, circa seimila all’anno. Penalizzazione assai più salata di quanto capitato ai diplomati (2.800 euro in meno). E in totale (8.100 euro, a prescindere dal titolo di studio). Un deterioramento evidente.
Non che alle generazioni degli attuali giovanissimi sia andata meglio. Il tasso di disoccupazione nella fascia 15-24 anni è pressoché raddoppiato negli ultimi 36 anni: dal 21,7% del 1977 al 40% del 2013. Fino ad arrivare al 43% certificato ieri dall’Istat. «Un incremento così repentino non era mai stato osservato, neppure negli anni delle precedenti crisi economiche», scrivono in un altro studio Paolo Naticchioni e Silvia Loriga (Istat). Non solo. Questo tasso supera di tre volte quello dell’intera popolazione. Uno “spread” che corre dal 2001, ben prima della crisi recente, mai riassorbito, ormai cronico. Nel 2013 l’Italia era il quarto paese in Europa in quanto a giovani senza lavoro (15-24 anni), dopo Grecia, Spagna e Croazia. Noi al 40%, il resto del continente al 22,8%. Ma siamo primi per l’altro “spread”, quello tra disoccupazione giovanile e totale. Un primato ininterrotto dal 1983 al 2013. Trent’anni. Che vale anche per la fascia dei più grandi, freschi di laurea. Penalizzati nella ricerca di un posto. E male e poco remunerati dopo averne conquistato uno.
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